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Recensione Classico

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Classico

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Quiet Riot – Metal Health – Classico

14 Ottobre 2022 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard n' Heavy
anno: 1983
etichetta: Pasha
ristampe:

Tracklist:

- Metal Health (Bang Your Head)
– Cum on feel the noize (Slade cover)
– Don’t wanna let you go
– Slick black Cadillac
– Love’s a bitch
– Breathless
– Run for cover
– Battle axe (instrumental)
– Let’s get crazy
- Thunderbird

Formazione:

Kevin DuBrow – Lead vocals
Carlos Cavazo – Lead guitars, Backing vocals
Rudy Sarzo – Bass, Backing vocals
Frankie Banali - Drums

Ospiti:

Pat Regan – Keyboards
Chuck Wright – Bass on Metal health, Don’t wanna let you go
Donna Slattery, Spencer Proffer, Riot squad – Backing vocals on Let’s get crazy
Tuesday Knight – Backing vocals on Thunderbird

 

Il 1983 è stato per chi vi sta intrattenendo con queste righe, l’anno della definitiva consacrazione alla musica più tosta del mondo, dopo aver passato circa un anno e mezzo dal mio primo concerto degli Iron Maiden nell’Aprile 1981, a conoscere l’universo hard’n’heavy, in quell’anno ho forgiato la mia personalità, non disdegnando da subito sia il lato glam/hard, che quello speed/thrash, con tutto quello che ci stava in mezzo, arrivando così a fagocitare qualsiasi uscita di cui venissi a conoscenza, grazie soprattutto a Marco Garavelli e al suo programma radiofonico “Linea Rock”, che mi fece conoscere anche il terzo, stupendo album dei Quiet Riot, il primo ad essere pubblicato in tutto il mondo, dato che i due precedenti uscirono solo in Giappone, e quello che fece il botto, vendendo oltre sei milioni di copie e arrivando alla prima posizione di Billboard, primo album metal a riuscirci.

Ma parliamo di quello che è contenuto in questo album uscito l’11 Marzo 1983 e di come fece sì che avesse tutto questo successo, ricordo di aver ascoltato per prima “Breathless”, la cavalcata che apre la facciata B e di aver pensato di essere davanti ad un gruppo interessante che sapeva ben miscelare l’atmosfera cupa dell’arpeggione d’atmosfera con la forza del metal, ma anche con un gusto per il ritornello non indifferente, da lì all’acquisto dell’album il passo è stato breve e la soddisfazione nell’ascoltare anthem immortali come la title track, che tra l’altro è stato uno dei primi video che girava abbastanza regolarmente l’anno successivo sulla neonata Videomusic, la cover degli Slade “Cum on fell the noize”, la scanzonata “Let’s get crazy”, la glammissima “Slick black Cadillac” pezzo ripreso da “Quiet Riot II”, la stranamente introspettiva “Don’t wanna let you go”, la metallicissima “Run for cover”, la breve strumentale “Battle axe”, la semiballad “Love’s a bitch” e il lentone emozionante “Thunderbird”, è stata davvero tanta e da subito mi resi conto che questo album avrebbe sfondato e che la band, dopo le mazzate dell’abbandono di Randy Rhoads, che era il chitarrista originale dei Quiet Riot e la sua improvvisa morte, avrebbe spiccato il volo, tanto da farla partecipare allo US Metal Festival di San Bernardino, assieme a Judas Priest, Scorpions, Van Halen, Ozzy Osbourne, Triumph e Motley Crue. “Metal Health” è figlio dei tempi, di un momento storico nel quale venivano considerati heavy metal anche gli stessi Crue e nel quale la spensieratezza e la voglia di trasgredire erano ancora ben presenti, d’altronde basta leggere qualche testo, tipo quello di “Love’s a bitch” per capire che il politically correct era lontano e che per essere metal non si doveva essere “true”, ma bastava avere l’attitudine e tanta voglia di far casino e in questo senso, i Quiet Riot lo erano eccome. In precedenza ho scritto che “Metal Health” fu il primo album heavy metal a raggiungere il primo posto della classifica di Billboard e tutto questo grazie alla forza trainante della cover “Cum on feel the noize”, che la band non voleva registrare, ritenendola troppo glam, ma che su suggerimento del produttore Spencer Proffer fu inserita e pubblicata anche come secondo singolo, questa cosa diede visibilità ai Quiet Riot anche tra chi non ascoltava metal e fece appunto da traino per tutto l’album, che in fondo, non aveva molte pretese o messaggi particolari, se non quello del divertimento e della ribellione nei confronti delle cosiddette “persone normali”, cosa tra l’altro molto in voga in quegli anni; il disco poteva contare su un lotto di canzoni azzeccatissime e suonate davvero bene, da una band che girava a mille e che aveva nel compianto Kevin DuBrow il frontman ideale, grintoso e ispirato, nella sezione ritmica con Rudy Sarzo e l’altrettanto rimpianto Frankie Banali un motore roccioso e preciso e soprattutto in Carlos Cavazo alla chitarra, un ricamatore di riff, di interludi e di assoli fantasioso, che non sfigurava nei confronti del grandissimo e sfortunatissimo ragazzo che lo aveva preceduto.

Il disco è dedicato alla memoria di Randy Rhoads, ma come disse Kevin in un’intervista dei tempi: “noi non vogliamo essere tristi per Randy, perché lui non lo vorrebbe e quindi facciamo musica da party, lui avrebbe voluto così” e quindi, pur ricordando l’amico e compagno tristemente scomparso l’anno precedente in un incidente aereo mentre era in tour con Ozzy Osbourne, l’album è un inno alla festa, al divertimento come solo a quei tempi si faceva, tempi nei quali uscivano album che avrebbero fatto la storia del genere e “Metal Health” lo è, un pezzo di storia imprescindibile e genuino, che non è più stato eguagliato in seguito, ma questo è un altro discorso, quello che conta è che l’album resta come testimonianza di un’epoca storica e bellissima, e chi, come me ha avuto la fortuna di viverla, sa cosa vuol dire e sicuramente si ricorderà sempre di questo disco imprescindibile.

© 2022, Giorgio Barbieri. All rights reserved.

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