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02 Luglio 2021 19 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti
In un articolo pubblicato su La Stampa fu Roberto D’Agostino a parlare di edonismo reaganiano per definire la tendenza, spiccatamente individualista, che la società occidentale assunse negli anni ottanta, durante i quali la presidenza di Ronald Reagan imperò negli Stati Uniti. I pilastri della politica economica di Reagan, definita Reaganomics, erano l’autosufficienza economica dell’individuo nei confronti dello Stato assistenzialista, il libero mercato, i tagli alla spesa pubblica e la riduzione delle imposte e della regolamentazione del governo. Ma Reagan non fu solo questo.
“E’ arrivato il momento, amici americani, di riprenderci il nostro destino. Insieme facciamo che sia un nuovo inizio!”, dichiarò alla nazione.
Una nuova, fascinosa epoca aveva inizio, e la cifra sulla quale questa doveva innestarsi era quella dell’ottimismo che Reagan, grazie alla sua straordinaria capacità comunicativa, seppe insufflare nella popolazione. E lo fece elogiando gli americani. Sostenne che non c’era nulla di sbagliato in loro. Era il governo che cadeva nell’errore di imporre tasse troppo alte, di colpire l’iniziativa privata e di mortificare le libertà individuali.
Anche al di fuori dei confini nazionali Reagan seppe mostrare i muscoli all’Unione Sovietica che lui stesso, in un discorso pronunciato l’8 marzo del 1983, aveva definito “Impero del Male”. Avvenne, quindi, una vera e propria corsa al riarmo. Le spese militari subirono una decisiva impennata e si lanciò il progetto dello Scudo Spaziale. Ricordiamoci che in quegli anni il popolo americano stava ancora subendo il trauma della guerra del Vietnam, e l’alone della sconfitta vorticava sinistro sopra le coscienze.
Ebbene, Reagan restituì agli americani l’orgoglio di essere americani e rinvigorì pensieri di forza e supremazia. Scanzonati ed incoscienti, gli anni ottanta segnarono un’epoca di fiducia nel futuro e di grande spensieratezza.
L’hippie fu soppiantato dallo yuppie: così si definirono (culla del neologismo fu Manhattan, il cuore finanziario della Grande Mela) i giovani e rampanti businessmen, in massima parte desiderosi di lavorare in borsa e di fare soldi a palate, maniacalmente fissati per il look, gli abiti firmati (in particolare quelli di stilisti italiani come Armani, Versace e Valentino) e le macchine sportive e assidui frequentatori delle feste più esclusive.
In questa iperpompata visione di divertimento costoso e senza limiti, esibire uno stile di vita appariscente diventava una regola fondamentale. Denaro, carriera e look. Era iniziata la piena civiltà dell’immagine. Attraverso il look l’uomo poteva evadere dall’universo ripetitivo della quotidianità dove ognuno assomigliava a chiunque altro, per scacciare l’ossessione più insopportabile degli eighties: essere perdenti, non riscuotere il successo e cadere nel cono d’ombra del banale. Un’intera generazione crebbe inseguendo il mito di Narciso. Gli anni ottanta videro mutare drasticamente gli equilibri sociali. L’impegno sociale e politico e le grandi manifestazioni di piazza diventarono di colpo elementi di un mondo lontano anni luce. La manifestazione esasperata dell’immagine assunse i tratti dell’obiettivo primario e assoluto tra palestre, diete e chirurgia estetica. Consumismo e svago si affermarono come veri e propri valori, come una reazione del singolo individuo. Come se, improvvisamente, avesse deciso che era arrivato il momento di pensare soprattutto a se stesso e al proprio godimento, in aperto contrasto con il protagonismo collettivo e le cupe e sofferenti suggestioni che avevano scosso il decennio precedente. Uno status symbol che trovò nell’era repubblicana di Reagan l’imprimatur internazionale.
Anche il cinema prese nuovo slancio dall’opulenza che dominava in quegli anni. Gli effetti speciali entrarono prepotentemente sul grande schermo e tracciarono la strada che li porterà ad imperversare da lì in poi. Le nuove tecnologie computerizzate portarono linfa ai film di fantascienza e avventura e si assistette alla realizzazione di alcuni cult generazionali, come E.T (record di incassi del decennio), Guerre Stellari (L’impero colpisce ancora e il ritorno dello Jedi), Indiana Jones (I predatori dell’Arca perduta, il Tempio maledetto e l’ultima Crociata), Terminator, La cosa, La mosca, Predator, Aliens Scontro finale, Ritorno al futuro, Ghostbusters, i Goonies, Ladyhawke, la Storia Infinita.
Spero mi verrà perdonato questo lungo preambolo. Per la sua natura sociologica mi ha regalato l’illusione di essere tornato tra i banchi universitari, ma soprattutto, fatto ancor più importante, può cercare di chiarire l’atmosfera che si respirava in quegli anni splendenti.
Come abbiamo visto, infatti, gli eighties sono probabilmente il decennio che più ha visto gli Stati Uniti in posizione predominante. Nel diffondere la cultura a stelle e strisce il cinema ha ricoperto un ruolo fondamentale. Sappiamo bene come suoni e immagini siano strumenti di inaudita potenza per lanciare messaggi o suscitare emozioni, ma ancora più potenti questi risultano quando vengono combinati. Nessuna opera cinematografica può fare a meno della propria colonna sonora. Anzi questa, in certi casi, può diventare ancora più memorabile della stessa pellicola.
Negli anni ottanta si decise spesso di usare la musica contemporanea per creare le colonne sonore. L’hard ‘n heavy riempiva gli stadi e, inoltre, risultava particolarmente funzionale a diverse esigenze. Le sue cupe atmosfere erano perfette per il cinema horror, che in quegli anni conosceva particolare fortuna, e le sue sonorità epiche e maestose riuscivano a rafforzare trame ed ambientazioni tipicamente americane. L’hard ‘n’ heavy fece così la sua comparsa in numerose colonne sonore, in tutte le sue varianti, soprattutto in quelle più accessibili, come l’AOR o il glam.
Ebbene, tentiamo di fare un salto indietro nel tempo, alla ricerca di qualche ricordo di giovinezza ormai sfumato all’orizzonte.
1985: Ammazzavampiri (Autograph You Can’t Hide from the Beast Inside, White Sister Save me Tonight), Gotcha! (Giuffria Never too Late, Say it ain’t True); Pazzo per te (Journey Only the Young, Sammy Hagar I’ll Fall in Love Again, Foreigner Hot Blooded); L’aquila d’acciaio (King Kobra Iron Eagle,
Adrenalin Road of the Gypsies); Hard Rock Zombies (con una colonna sonora scritta da Paul Sabu); inoltre, nel 1985 uscì il mitico Commando con un Arnold Schwarzenegger tirato a lucido. We Fight for Love dei Power Station lancia la leggendaria scena finale del “No chance”. Il testosterone schizza a mille quando Arnold, dopo aver massacrato tutti i cattivi e salvato sua figlia (una giovanissima Alyssa Milano) risponde con un granitico “No chance” al generale Kirby che gli chiedeva di tornare a capo del suo vecchio reparto.
1986: Il Replicante (Ozzy Osbourne Secret Loser, Lion Never Surrender, Tim Feehan Where’s the Fire); Youngblood (Mickey Thomas Stand in the Fire, Autograph Winning is Everything), No Retreat No Surrender (Frank Harris Hold on to the Vision)
1987: Morte a 33 giri (con la colonna sonora completamente realizzata dai britannici Fastway); Nightmare 3 (Dokken Dream Warriors e Into the Fire); Il ritorno dei morti viventi 2 (Leatherwolf Alone in the Night, Joe Lamont Flesh to Flesh); The Running Man (John Parr Restless Heart); Il segreto del mio successo (Night Ranger The secret of my Success)
1988: Nightmare 4 (Vinnie Vincent Invasion Love Kills, Jimmy Davis My Way or Highway, Love/Hate Angel); Senza esclusione di colpi (Bloodsport) (Stan Bush Fight to Survive e la ballad On My Own Alone), Black Roses (in questo caso fu formata una band appositamente per il film con Mark Free, Alex Masi, Chuck Wright e Carmine Appice; contribuirono alla colonna sonora anche Lizzy Borden, Bango Tango e King Kobra)
1989: Nightmare 5 (Romeo’s Daughter Heaven’s in Backseat), Sotto Shock (Paul Stanley Shocker, Bonfire Sword and Stone, Saraya Timeless Love), Bill & Ted’s Excellent Adventure (Vital Signs, The Boys and Girls Are Doing, Glen Burtnick Not So Far Away, Tora Tora Dancing with a Gypsy, Shark Island Father Time, Dangerous, Bricklin Walk Away, Robbie Robb In Time)
https://www.youtube.com/watch?v=eSje5UJgEsw
Infine vorrei includere in questo elenco anche Giorni di Tuono (John Waite Deal for Life, David Coverdale The last Note of Freedom, Chicago Hearts in Trouble). Ad onor di cronaca il film uscì solo nel 1990, ma come atmosfera e contenuti è forgiato da un’anima indiscutibilmente eighties. D’altra parte l’idea del regista Tony Scott e Tom Cruise era quella di ripetere (senza riuscirci) il planetario successo di Top Gun.
Capitolo a parte merita la figura di Harold Faltermeyer, tastierista e compositore tedesco, nonché uno dei maggiori fautori dell’introduzione del sintetizzatore nelle colonne sonore anni ottanta. Ingegnere del suono per la Deutsche Grammophon, Faltermeyer trovò il suo coronamento definitivo in Top Gun. Sono sue Mighty Wings, data ai Cheap Trick, e tutte le musiche strumentali udite nel film, le prime mai registrate con modalità DDD. La seconda metà del decennio fu il periodo più prolifico per Faltermeyer. Contribuì alle colonne sonore della trilogia di Beverly Hills Cop, del già citato The running man e di Tango & Cash.
Ma veniamo ora al centro nevralgico dell’articolo. A mio avviso furono sei i film che per contenuti e colonna sonora seppero far splendere gli eighties in tutta la loro magnificenza, mettendo sul grande schermo la loro magica atmosfera e consegnando alla storia immagini e suoni.
Nel 1983 uscì Scarface, diretto dal maestro del thriller Brian De Palma e con protagonista assoluto Al Pacino. Si tratta di un remake del classico omonimo di Howard Hawks, ma se ne discosta nell’ambientazione e nel periodo storico. La vicenda, infatti, si svolge nella Miami degli anni ottanta, e non nella Chicago degli anni del proibizionismo.
Il film racconta l’ascesa al potere di Tony Montana, piccolo criminale cubano giunto a Miami con i profughi dell’esodo di Mariel. Grazie alla sua personalità spregiudicata e crudele, Tony riesce a scalare le vetta del crimine e a diventare il signore della droga di Miami.
In Scarface e in Tony Montana c’è la folle atrocità del mondo criminale americano, rappresentato in tutta la sua natura, fatta di sangue e morte. Si tratta di uno straordinario affresco della Miami di quel momento dove imperavano droga, violenze e sopraffazioni, e le stragi emergevano nella forma più virulenta e sanguinaria.
Ma Scarface è anche la rivisitazione del sogno americano di quegli anni, seppure attraverso lo sguardo psicopatico di un esule cubano bramoso di ricchezza e gloria.
A dare ulteriore slancio all’opera è la colonna sonora realizzata dall’italiano Giorgio Moroder. Un tripudio di sonorità elettroniche si sposa perfettamente con l’eccesso delle atmosfere e delle immagini del film, accompagnando magistralmente sia le scene più adrenaliniche sia quelle più cupe.
L’incalzante Push it to the Limit di Paul Engemann sostiene una sequenza memorabile del film.
In pochi minuti scorre sullo schermo, in tutti i suoi eccessi, proprio l’apice del potere raggiunto da Tony Montana, dai sacchi pieni di banconote portate alla Tri-American City Bank, al matrimonio con l’amata Elvira (la bellissima Michelle Pfeiffer), alla tigre legata ad un albero nel giardino della villa.
Nella scena finale, quando il cadavere di Tony giace sanguinante e crivellato di colpi nella vasca interna della villa, tra lo sfarzo e l’opulenza, si nota una statua dorata che riporta le parole in viola fosforescente the world is yours.. Se ci pensate bene, non stavano tutti qui gli splendenti anni ottanta?
Nel 1986 uscì Highlander, una meravigliosa favola fatta di magia e immortalità, presente e passato, romanticismo ed epicità, un insieme di elementi magistralmente combinati che lo hanno reso un classico.
Connor McLeod, interpretato da Christopher Lambert, fa parte di una stirpe di immortali e attraversa il tempo, dai villaggi della Scozia del ‘500 alle strade di una New York ritratta in pieno ‘85.
Ma un capolavoro non nasce mai casualmente. Il regista, Russel Mulcahy, era diventato famoso per aver girato video di importanti gruppi, come i Duran Duran, ed era dotatissimo, a livello di immagini evocative.
Le musiche di Michael Kamen rafforzano la spettacolare fotografia del film e lanciano alcune delle scene più solenni e maestose mai realizzate, come quella in cui Ramirez (Sean Connery) insegna a McLeod ad usare la spada sulle cime delle highlands scozzesi. Una sequenza consegnata alla storia che testimonia tutto il senso epico dell’immagine posseduto dal regista.
Le canzoni furono realizzate dai Queen, e rappresentano una vera e propria forza propulsiva. Esaltano alla perfezione tutte le qualità dell’opera, romantiche, eroiche, adrenaliniche e magiche. Princes of the Universe, Gimme the Prize (forse il pezzo più vicino all’heavy metal scritto dai Queen), One Year of Love, Who Wants to Live Forever (che accompagna la sequenza più romantica del film, quando Heather, la donna di McLeod, invecchiata secondo le normali regole della natura, sul punto di morte, chiede al suo amato di accendere una candela per ricordare il suo compleanno negli anni a venire), Don’t Lose Your Head e A Kind of Magic faranno tutte parte dell’album A Kind of Magic, pubblicato il 3 giugno del 1986. Nel film compare anche Hammer to Fall, che faceva parte dell’album The Works del 1984.
Russel Mulcahy non raggiungerà mai più questo apice. Con Highlander aveva creato un’opera di culto, che non poteva essere ripetuta. Un’opera perfetta, magica. It’s a kind of magic, dice il protagonista ad un certo punto del film. Una specie di magia, come Highlander.
Nel 1986 uscì anche Top Gun. Gli Stati Uniti stavano vivendo nel pieno il sogno repubblicano. Ronald Reagan, ormai quasi al tramonto del suo secondo mandato, aveva portato la nazione a credere che una nuova era stava iniziando. Il Conservatorismo aveva trionfato. Ma, come abbiamo detto, il trauma della guerra del Vietnam aleggiava ancora e la paura dell’esplosione di un nuovo conflitto serpeggiava nell’opinione pubblica. Gli americani avevano bisogno di fiducia e coraggio. E il cinema in questo caso diventò un’arma vincente. Nacque così l’idea di Top Gun, diretto da Tony Scott, e con Tom Cruise, bellissimo e sfacciato, come assoluto protagonista.
Si tratta innanzitutto di un film d’azione, che prende l’avvio in una base aerea, tra fumo e rombo di motori, poco prima dell’elettrizzante scena del volo di pattugliamento sull’Oceano Indiano. Poco dopo si assiste ad una delle sequenze più entusiasmanti, ed indimenticabili. Maverick (Tom Cruise) è appena stato mandato dal comandante della squadriglia a Miramar, per frequentare la rinomata scuola Top Gun. Lo vediamo curvo sulla sua moto, carico a mille, con gli occhiali da sole e il giubbotto di pelle. Il cielo sfuma di azzurro e rosa, e lui rivolge un pugno di trionfo all’aereo che sfreccia, con cui sembra intrattenere una gara di velocità. Un pugno che profuma di anni ottanta, un’epoca proiettata alla vittoria, per insegnarci che si ha sempre la possibilità di scrivere il proprio destino. Sempre.
La colonna sonora di Top Gun, prodotta dalla Columbia Records nel 1986, viene ricordata come una delle più belle di tutti i tempi, capace di scolpirsi nei cuori di tutti e di stazionare per diverse settimane alla prima posizione in classifica. Dall’album furono estratti tre singoli.
Take my Breath Away dei Berlin (e prodotta dal grande Giorgio Moroder) arrivò al primo posto in classifica, vincendo anche un premio Oscar e un Golden Globe come miglior canzone, e accompagna la romantica scena del bacio sul ciglio della strada e quella d’amore, nella penombra della camera da letto.
Danger Zone di Kenny Loggins raggiunse il secondo posto, e rievoca l’anima più elettrizzante del film, con quella batteria incalzante e maledettamente eighties. Loggins canterà anche Playing With the Boys per la scena sulla spiaggia, dove la partita di beach volley sfoggia uno strabordante trionfo di muscoli, per la soddisfazione del pubblico femminile. Infine la zuccherosa Heaven in Your Eyes dei Loverboy si fermò alla dodicesima posizione. La colonna sonora comprendeva anche la già citata Mighty Wings dei Cheap Trick, scritta e prodotta da Harold Faltermeyer. Inoltre, lo stesso Faltermeyer e Steve Stevens hanno scritto e realizzato il bellissimo pezzo strumentale che accompagna la scena finale.
Top Gun fu il film più visto del 1986, con 350 milioni di dollari a livello globale. Ma soprattutto, tra sognanti tramonti e sfrecciate in moto, ebbe l’indiscusso merito di vendere un sogno. Quello americano.
Arriviamo, infine, al vero, autentico codice genetico dell’articolo: Sylvester Stallone. Nessuno come Sly ha saputo sincronizzarsi con l’immaginario del macho anni ottanta. E come magnifiche anime di quegli anni, spesso le opere di Sly sono state supportate e lanciate da straordinari pezzi di rock melodico, così alla ribalta in quel momento. Nel 1983, in Staying Alive, We Dance So Close to the Fire di Tommy Faragher domina la sequenza dello spettacolo finale di John Travolta. Nel 1987, in Over The Top, Winner Takes It All di Sammy Hagar accompagna l’esaltante sequenza dove i migliori al mondo si sfidano a Las Vegas, nelle fasi finali del campionato mondiale di braccio di ferro. Nel 1989, in Tango & Cash, sono addirittura i Bad English con la spettacolare Best of What I Got a lanciare i titoli di coda.
Ma fu soprattutto con tre film che Sly riuscì a portare lo spirito dell’edonismo reaganiano a livelli celestiali.
Nel 1982 uscì Rocky III. Patinato e muscolare, il film lancia ufficialmente la saga di Sly negli splendenti eighties. E lo fa anche a tempo di musica. Eye of the Tiger dei Survivor supporta l’esaltante sequenza iniziale, dove Rocky, diventato da poco campione del mondo, tra celebrazioni e fuochi d’artificio, con irrisoria facilità butta al tappeto diversi pretendenti al titolo. Il pezzo diventerà una vera e propria hit, e nel 1983 collezionò due nomination in due delle cerimonie più importanti nel panorama cinematografico mondiale: Oscar e Golden Globe.
La sequenza iniziale introduce anche il nemico, il mastino Clubber Lang, feroce e affamato come una belva, proprio come lo era Rocky anni prima. Alla fine del film, al termine di un lento e difficile percorso di risalita, Rocky ritroverà gli occhi della tigre, e, nel combattimento finale, gli spettatori si ritroveranno tutti a bordo ring a fare il tifo per lo Stallone italiano.
Rocky IV fu presentato in anteprima mondiale a Los Angeles il 21 novembre del 1985. Eravamo all’apice dell’era reaganiana. Rocky IV è un solenne, splendente monumento dell’America anni ottanta. Rocky deve affrontare Ivan Drago, colosso russo sotto i cui pugni è morto l’amico Apollo. La guerra fredda è ai suoi massimi storici, e Sly si lancia in uno scontro contro i nemici sovietici, nella migliore tradizione degli action di quegli anni, gli stessi avversari che Sly affronta lo stesso anno anche in Rambo II, non a caso altro campione di incassi e, come fu definito dallo studioso Robert Sklar, “il film più carico di significati per la cultura americana del decennio”. E’ ormai consegnata alla storia la frase che Reagan pronunciò dopo aver visto Rambo II: “La prossima volta manderò Rambo”.
Rocky diventa un vero e proprio Capitan America, intento ad esportare il sogno americano. Rocky IV, come Rambo II, diventa la stellare cronaca di un successo mondiale, un film con ambizioni globali, al servizio della patria, un’opera nazionale più che intima.
Il film incassò 300 milioni di dollari, diventando il film sportivo più proficuo fino al 2009. In Italia fu il secondo film per incassi della stagione 1985/86, dietro a (guarda caso..!) Rambo II. Rocky stesso è ormai una star internazionale che sconfina dagli States e diventa fiero portabandiera dell’identità americana. E proprio nella tana del Diavolo, in Russia, la perfetta nemesi del sogno reaganiano, Rocky, avvolto nelle stelle e strisce, metterà al tappeto il loro eroe, finendo amato ed applaudito anche dal popolo nemico.
La colonna sonora di Rocky IV uscì alla fine del 1985, in concomitanza dell’uscita della pellicola nelle sale. L’album è un vero e proprio trattato di AOR, una finestra su quegli anni in cui tastiere e melodia dominavano l’etere.
Ancora una volta Eye of the Tiger dei Survivor (che saranno presenti anche con Burning Heart) apre il film con una sequenza che potrebbe far resuscitare un morto. Sono le ultime fasi del combattimento contro Clubber Lang. Il volto di Rocky è una maschera di sangue, ma urla ancora “c’mon, c’mon” in faccia all’avversario, incitandolo ad attaccare, a farsi sotto, fino al sinistro/destro finale che mandano Lang al tappeto.
La struggente e drammatica No Easy Way Out di Robert Tepper domina una sequenza storica.
La batteria attacca, il motore della Lamborghini inizia a rombare, i fari squarciano la notte.. Apollo è morto da poco, e flashback del passato si susseguono uno dopo l’altro, in una cavalcata di emozioni maledettamente anni ottanta.
Ma veniamo alle sequenze di allenamento, che sono adrenalina pura, ma anche il cuore pulsante dell’opera.
Training Montage di Vince DiCola accompagna la prima. Le luci dell’alba russa si allungano sulla distesa di neve, Rocky inizia a correre, travolto dal gelo e dalla bufera.. e da lì in poi sono tre minuti di passione e grinta che arrivano diretti allo stomaco dello spettatore. Che non può stare fermo mentre guarda!
Hearts on Fire di John Cafferty lancia la seconda. All’interno del casolare il fuoco arde, mentre Rocky ci offre uno spettacolo di puro machismo. Sly è tiratissimo, e la sequenza è a dire poco quanto di più esaltante sia mai stesso messo sul grande schermo. Sfido chiunque abbia fatto un qualunque sport a livello agonistico e stia leggendo questo articolo a dichiarare di non aver mai avuto nella sua Playlist Hearts on Fire! Tu? Stai mentendo! Salto della corda, addominali, taglio della legna con la scure, sollevamento di massi e di addirittura tre persone da un carretto, e ancora addominali, mentre Duke, madido di sudore, gli sussurra “No pain, no pain, no pain..”. La sequenza termina con Rocky che corre ancora una volta tra le neve. Semina la macchina di scorta, scala una montagna, raggiunge la cima, alza le braccia al cielo e urla al cielo il nome del suo avversario “Drago”, mentre la sua voce echeggia nella vallata. L’eroe americano è pronto a vincere. E vincerà!
Arriviamo al 1986. Sly è all’apogeo della carriera, e sicuramente uno dei più grandi divi di Hollywood.
Esce Cobra. Un lucente monumento dell’era reaganiana. Sly è il tenente Marion Cobretti, un poliziotto duro e brutale, abituato a operare al di fuori delle normali procedure di polizia. Cobretti è a capo della Zombie Squad, una sezione speciale che si occupa dei criminali psicopatici. Da qualche tempo, infatti, le strade di Los Angeles sono terrorizzate da una setta di folli assassini armati di asce che si fanno chiamare “Le Belve della Notte”. L’incarico di Cobretti è proteggere la modella Ingrid Knudsen (la bellissima Brigitte Nielsen) che è stata testimone oculare di uno dei delitti della setta.
Il regista fu George Pan Cosmatos, e, come aveva fatto in Rambo II l’anno prima, allestisce attorno a Sly uno spettacolo one man show splendidamente anni ottanta. Tutto è studiato a tavolino e curato fin nel minimo dettaglio. Il Ray Ban, i guanti, i jeans con le tasche posteriori tagliate, il fiammifero in bocca, quello strano nome da donna (preso in prestito da John Wayne), il manico della pistola personalizzato, la Mercury custom, e quel mood taciturno interrotto solo da frasi a cazzo duro.
Ne uscì un tour de force di azione e violenza. In realtà, a tratti, il film sconfina addirittura nell’horror, avvicinandosi alla brutalità dello slasher. Cobra, infatti, dovette fare i conti con l’MPAA, affinché non ricevesse il temuto R-Rated, a causa delle scene di violenza, ritenute troppo frequenti e gratuite. Vennero, quindi, rimosse sequenze con gole squarciate, arti smembrati e quindi un aumento considerevole del numero delle vittime. Ma alla fine Cobra arrivò nelle sale.
Come si poteva prevedere, venne stroncato dalla critica. Venivano contestati i dialoghi, ritenuti troppo banali, e la sovrabbondanza di scene di violenza immotivata. Perfino alcuni critici nostrani criticarono Cobra per l’atmosfera non troppo velatamente fascistoide che aleggia nel film..
Le recensioni negative non ebbero un grande impatto sui risultati al box office di Cobra. Gli incassi arrivarono a 160 milioni di dollari complessivi, partendo da un budget di soli 25 milioni. Il film divenne anche un grande successo in home video, e ancora oggi è uno dei titoli più venduti del catalogo Warner.
Quello che i critici non capirono è che Cobra era esattamente quello che gli americani volevano in quel momento. Ogni espressione delle arti e dello spettacolo deve necessariamente essere giudicata considerando il contesto storico da cui ha avuto origine, e Cobra era assolutamente espressione pura e definitiva dell’era reaganiana.
Dominato dalla presenza scenica di Sly, Cobra è un pugno allo stomaco a tutti i perbenisti, un’opera senza mezze misure, assolutamente elementare nella struttura narrativa, ma proprio per questo ancora più diretta. Cobra è il singolo individuo che ottiene la giusta vendetta e ripulisce le strade dal crimine e dai degenerati, nel caso in cui la giustizia ordinaria non fosse in grado di farlo. Lo dichiara lui stesso, prima dello scontro finale contro il sanguinario capo della setta. “Qui la legge si ferma e comincio io!”. Non mi meraviglierei se, in futuro, studi scientifici dimostreranno un aumento del 200% del testosterone quando si guarda questa scena!
La verità è che Cobra è un vero gioiello a stelle e strisce uscito diretto dagli splendenti anni ottanta, straripante di scene madri che ancora adesso non possono non esaltare lo spettatore.
Due di queste sono lanciate da meravigliosi pezzi di hair metal.
Il primo è Angel of the City di Robert Tepper ed è perfetto per accompagnare una suggestiva sequenza notturna. Cobra vaga tra le strade della città, scendendo nei quartieri più malfamati e avvicinando prostitute e loschi soggetti, alla ricerca di indizi per scovare gli assassini, mentre la splendida Ingrid sfila circondata da una futuristica scenografia fatta di robot. Sequenza che profuma di eighties fino al midollo.
Il secondo pezzo è Feel the Heat di Jean Beauvoir. Cobra decide di portare Ingrid fuori città, dove è convinto di poterla proteggere meglio. La batteria pulsante e la voce squillante di Beauvoir suggellano un’altra sequenza dannatamente anni ottanta. E mentre il paesaggio di campagna si specchia sul Ray Ban del Cobra, va in scena un dialogo che racchiude tutta l’anima del film.
“Ci sono in giro un’infinità di squilibrati. Perchè la polizia non li mette in condizione di non nuocere?”, chiede Ingrid.
“Lo chieda ai giudici. Sono loro che li fanno uscire. E’ così, non c’è niente da fare. Questa è la legge”, risponde Cobra.
Ma niente paura. Perchè i criminali verranno giudicati da una legge superiore. Quella del Cobra.
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