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16 Ottobre 2020 3 Commenti Vittorio Mortara
genere:
anno: 2019
etichetta: Melodic Rock Records
Tracklist:
1. Don't Wait 3:46
2. California 3:51
3. I Need You 4:26
4. I Don't Want Your Love 5:21
5. Givin' Up Easy 3:49
6. Say It Now 4:20
7. Rose Maria 4:08
8. A Simple Song 3:44
9. I Met A Girl 3:42
10. What If They Lied 4:05
Formazione:
Voce: Tommy Funderburk
Chitarre: Bruce Gaitsch, Phil Collen, Timoty Schmit
Tastiere: CJ Vanston
Batteria: Keith Carlock
Basso: John Patitucci
Cori: Peter Cetera
Mi imbattei nei King Of Hearts per la prima volta nel lontano 1994, quando, finalmente, sugli scaffali di uno stupendo negozio di dischi tedesco trovai il loro omonimo album di debutto. E fu amore a prima vista.
Composizioni eleganti, suonate con maestria, produzione eccezionalmente curata e pulita, con suoni ben al di sopra della qualità media delle uscite di quel tempo. La musica proposta era molto varia, spaziando dal cantautorato americano stile Richard Marx, Tim Feehan, Eddie Money, al westcoast sound più raffinato, con qualche scappata nell’AOR più classico. Stupendi, in particolare, i due lenti “Don’t call my name” e “The night the angels cried”, struggenti e romantici. Su tutto l’album la voce di Funderburk faceva da padrona, con linee melodiche ed interpretazione straordinarie, dolce e carezzevole nei momenti più intimi, graffiante quando serviva.
Il successivo “Joy will come” di due anni dopo, ricalcava perfettamente le orme del predecessore. Canzoni orecchiabilissime che una decina di anni prima avrebbero scalato senza problemi le classifiche americane fino alle prime posizioni. Ma ormai il grunge la faceva da padrone e il disco uscì in sordina, dapprima solo in Giappone e poi nei paesi scandinavi, e procurarmene una copia non fu affatto facile.
Oggi, grazie alla Melodic Rock Records, esce questo nuovissimo lavoro, intitolato ancora semplicemente “King of hearts”.
La band è essenzialmente un duo, costituito dal chitarrista, session man e produttore Bruce Gaitsch ed il talentuoso cantante Tommy Funderburk, che si avvalgono, ora come in passato, della collaborazione di un folto numero di musicisti militanti in band di grandezza assoluta. Alla batteria siede Keith Catlock, noto in ambito pop, jazz e rock, mentre al basso troviamo nientemeno che John Patitucci, uno dei più quotati sulla scena jazz/fusion degli ultimi vent’anni. Danno poi il loro contributo qua e la anche Phil Collen (Def Leppard), Peter Cetera (Chicago) e Timoty Schmit (Eagles).
Tanto per dare un’idea a chi non lo conoscesse, Bruce Gaitsch ha suonato la chitarra, composto pezzi e curato la produzione per gente come Richard Marx, Kenny Rogers, Glenn Frey, Celine Dion, Roger Waters, Barbara Streisand, Elton John, Fergie Frederikssen, Joe Cocker e Kelly Keagy. E, dulcis in fundo, potete trovare la sua firma su “La isla bonita” di Madonna, smash hit di livello planetario.
Più modesto ma ugualmente valido il curriculum di Funderburk, cofondatore di due band di livello come Airplay e The Front.
Si parte con “Don’t wait”, e mi trovo subito spiazzato. Un arpeggio acustico introduce una canzone diversa dal repertorio precedente. Più vicina al rock che flirta col prog dei misconosciuti Crack The Sky . Intrigante. Ma sicuramente non lo stile che mi aspettavo. Su “California” ancora l’acustica sugli scudi, per una canzone che trasuda westcoast da tutti i pori, ma che da la forte impressione del già sentito. La successiva “I need you” è invece un lento bluesly, con un cantato sofferto a sottolinearne la drammaticità. Buon pezzo ma non abbastanza da lasciare il segno. Il fantasma dei toto più Lukatheriani, del periodo XX/Tambù, si aggira per tutta “I don’t want your love”, brano di classe, veramente godibile. E poi arriva il mio pezzo preferito: “Givin’up easy” è una canzone westcoastiana, ma di quelle belle. Qui ritroviamo quelle linee melodiche eccellenti che caratterizzavano i primi due album, accompagnate da strumenti acustici, che puntano dritto al cuore dell’ascoltatore. Bella, bella, bella! Le tipiche atmosfere dei cantautori rock che affollavano le charts a stelle e strisce a fine anni 80, tornano prepotenti con “Say it now”, impreziosita da una bella interpretazione di Funderburk. E veniamo a “Rose Maria”. Facciamo un giochino: nel ritornello provate a sostituire le parole “Rose Maria” con “take it easy”. Cosa viene fuori? Chi ha detto Eagles? Eh già, qui siamo quasi al plagio. Ma Gaitsch ha spesso collaborato con Frey e Schmit, quindi ci può stare. “A simple song” è esattamente quello che dice il titolo: una semplice canzone rock, non particolarmente riuscita sia nella parte strumentale, piuttosto scontata, che nelle melodie vocali, dove il cantante non sembra trovarsi propriamente a suo agio. Si respira di nuovo aria spensierata targata USA nella seguente “I meet a girl”, grazie anche all’ispirata interpretazione di Tommy, un vero campione in questo genere. Si chiude con “What if they lied” che a me ricorda parecchio il repertorio dei primi Nelson, quelli di “After the rain”. Sicuramente non un brutto brano, ma che, ancora una volta, non mi lascia particolarmente soddisfatto.
Diciamolo subito, da questo lavoro mi aspettavo grandi cose. A me i precedenti dischi erano piaciuti proprio tanto. Ragion per la quale, devo ammetterlo, sono rimasto deluso. Qui non ci sono più i suoni perfetti ed iperprodotti di prima. Sarà che il budget di Pioneer Japan era sicuramente più alto e quindi si erano potute fare le cose molto più in grande. Sarà che la voce di Funderburk sente un po’ il peso degli anni. Sarà che la vena di Gaitsch non è più quella di una volta. Fatto sta che l’album risulta senza infamia e senza lode. Scorre senza farti venire la voglia di premere stop ma non ti fa neanche desiderare di schiacciare il tasto repeat.
Peccato
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