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Recensione

68/100

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JOE PERRY – Sweetzerland Manifesto – recensione

20 Agosto 2018 2 Commenti Stefano Gottardi

genere: Rock'n'Roll/Blues
anno: 2018
etichetta: Roman Records

Tracklist:

1. Rumble In The Jungle
2. I’ll Do Happiness
3. Aye, Aye, Aye
4. I Wanna Roll
5. Sick & Tired
6. Haberdasher Blues
7. Spanish Sushi
8. Eve Of Destruction
9. I’m Going Crazy
10. Won’t Let Me Go

Formazione:

David Johansen - Voce
Terry Reid - Voce
Robin Zander - Voce
Joe Perry - Chitarra, Basso, Chitarra Acustica
Bruce Witkin - Basso
David Goodstein - Batteria

Ospiti:

Johnny Depp - Batteria
Anthony Perry - Drum Programming, Chitarra Ritmica
Roman Perry - Synth Programming
Dan Rothchild - Basso
Zak Starkey - Batteria
Colin Douglas - Percussioni, Voce, Backing Vocals
Jack Douglas - Backing Vocals
Rudy Tanzi - Clavinet, Hammond B3, Mellotron, Piano
Markita Knight - Voce
Isaac Koren - Voce, Backing Vocals
Torald Koren - Voce, Backing Vocals
Linda McCrary - Voce
Marco Moir - Piano

Contatti:

http://www.joeperry.com
https://www.facebook.com/OfficialJoePerry/

 

In attesa di saperne di più riguardo ad un nuovo lavoro degli Aerosmith, dopo il solo album di Steven Tyler del 2016, i fan possono oggi godersi un altro capitolo della discografia di Joe Perry. Iniziata nel 1979 col lancio del Joe Perry Project e dell’LP Let The Music Do The Talking, la carriera solista del chitarrista di Boston è stata portata avanti nel corso del tempo, anche dopo il suo rientro nella band madre. Sweetzerland Manifesto, ottavo disco a portare il suo nome, comincia a prendere forma diversi anni fa nella testa di Perry come album strumentale, ma assume repentinamente una piega differente dopo la prima registrazione datata 2012, la cover di una canzone di protesta degli anni Sessanta, “Eve Of Destruction”, che il guitar hero omaggia anche della sua presenza dietro al microfono.

È a quel punto che viene presa la decisione di indirizzare il prodotto verso i soliti sentieri rock and roll tanto cari all’artista, che ingaggia due voci molto diverse fra loro, ma altrettanto storiche: Robin Zander dei Cheap Trick e David Johansen dei (delle?) New York Dolls. Registrato in un’atmosfera familiare a Hollywood nello studio personale di Johnny Depp, che suona anche la batteria su un pezzo, il disco si apre con la strumentale “Rumble In The Jungle”, strano mix di blues, percussioni e ritmi tribali che fa da apripista alla vera opener, “I’ll Do Happiness”, bluesaccio oscuro e settantiano con il terzo vocalist presente nella line-up, Terry Reid (cantante inglese noto perlopiù per i clamorosi rifiuti rifilati sul finire degli anni Sessanta, prima a Jimmy Page e poi a Ritchie Blackmore, di entrare a far parte di due band che in seguito diverranno leggendarie: Led Zeppelin e Deep Purple). Il singer britannico ricompare poi sul robusto rock “Sick & Tired” (con un solo che pare estrapolato da una song degli Aerosmith) e sul blues della conclusiva “Won’t Let Me Go”, dimostrando tutto il suo valore. Perry, dal canto suo, decide di non mostrare mai i muscoli e l’album privilegia sempre la forma canzone: virtuosismi e scale suonate a velocità della luce non sono il suo credo. Lo è invece il rock and roll, quello bluesy dei primi Aerosmith, che tornano alla mente solo in un paio di occasioni, sul singolo “Aye, Aye, Aye” cantato da Robin Zander e sulla penultima traccia “I’m Going Crazy”, marchiata a fuoco da uno spettacolare David Johansen. Un altro episodio strumentale, “Spanish Sushi”, permette al padrone di casa di sperimentare e sfogare un po’ del suo estro artistico (in compagnia di due dei suoi tre figli, Tony e Roman), senza però aggiungere particolari note di colore a un disco un po’ in bianco e nero come la sua copertina. Da segnalare l’elegante confezione digipack con booklet di 16 pagine completo di (belle) foto e tutti i testi.

IN CONCLUSIONE

Edito dalla sua Roman Records, l’album non ha probabilmente risentito di pareri di terze parti, concedendo al suo protagonista principale la più totale libertà di azione. Nonostante Jack Douglas firmi diversi brani, in mezzo a qualche buona idea alcuni filler abbassano l’asticella del gradimento, lasciando un po’ di amaro in bocca. Il guitar-playing di Joe Perry e qualche colpo di reni dei bravi singer coprono alcune carenze in fase di songwriting, salvando un disco indicato più che altro ai die hard fan dell’artista.

© 2018, Stefano Gottardi. All rights reserved.

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