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29 Settembre 2017 105 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2017
etichetta: GAIN/Sony Music
Tracklist:
1. Bastard of Society
2. Redefined
3. Shit City
4. Time on Our Side
5. Best of the Broken
6. Eye of the Storm
7. Blind Leads the Blind
8. We Rule
9. Do You Want It?
10. Into The Great Unknown
Formazione:
Erik Gronwall – vocals
Dave “Sky Davis” Dalone – guitars
Jona Tee – keyboards
Jimmy Jay – bass
Crash – drums
Questa volta mi sono dovuto prendere un po’ di tempo in più, e ho lavorato a questa recensione dopo un periodo di ascolti sicuramente più lungo rispetto a quello necessario a stilare un parere su molte altre release. Quindi scusate il ritardo, ma Into The Great Unknown, la produzione numero cinque nella carriera dei giovani e acclamatissimi rocker H.E.A.T (uscita già da qualche giorno per GAIN Music), mette sul tavolo un paio di carte inedite che rischiano di lasciare interdetti alcuni fans, nel momento stesso in cui aprono nuovi orizzonti percorribili dal gruppo. Ma partiamo dal principio.
Into The Great Unknown non è per niente un brutto disco. La produzione di Tobias Lindell, con le registrazioni eseguite ai Karma Sound Studios, in Thailandia assieme a Rhys Fletcher, ha donato al platter suoni nitidi di primissima classe, che esaltano tanto il cantato di un magnifico Erik Grönwall quanto le chitarre del rientrante Dave Dalone, con la sezione ritmica del bassista Jimmy Jay e del batterista Crash decisamente roboante e densa di quel bel groove che, unito alle tastiere in rilievo di Jona Tee, genera quella bella profondità di suoni e quella corposità che è da sempre tipica delle produzioni degli H.E.A.T. Ciò che colpisce invece, e che effettivamente può lasciare sulle prime piuttosto interdetti, è la deviazione moderna (nei suoni e negli intenti) che presentano alcune di queste canzoni – e il riferimento è destinato in particolare a tracce come Best of the Broken o Time On Our Side – che suonano decisamente fuori dagli schemi usuali del gruppo. Tanto che la seconda delle due appena citate riesce persino a “dimenticarsi” del consueto assolo di chitarra.
Ma allora come è giudicabile questo album? Beh, sicuramente i primi ascolti non lo riescono a classificare come una delle migliori produzioni degli H.E.A.T (complice anche l’apparente mancanza di ritornelli in grado di rimanere subito stampati in testa. Problema questo che, ve lo garantisco, scemerà proseguendo con le sue riproduzioni!), ma mano a mano che lo si risente Into The Great Unknown inizia a entrare in circolo e a piacere sempre di più. Non siamo sui livelli di Address The Nation, ma forse già l’ultimo Tearing Down The Walls non è distante. E’ un album di transizione, che accenna a qualche novità ancora in fase di definizione rimanendo sulla soglia, tra vecchio sound e nuovo. Basta infatti ascoltare l’opener Bastard of Society, una traccia tirata e di grande energia, per accorgerci che gli H.E.A.T sono sempre gli stessi H.E.A.T di qualche anno fa, ma che allo stesso tempo con Redefined i cinque ragazzacci accennano già a un cambiamento, questa volta indirizzato verso sonorità rock-elettronica anni ’80 perfette per le colonne sonore di quegli anni. E Shit City?! Mamma mia, con questa canzone gli H.E.A.T mescolano nota dopo nota mille stili e mille sonorità, per una traccia decisamente spensierata, fuori dagli schemi, da non prendere troppo sul serio, tutto sommato divertentissima.
Certo, se già la nostra testa iniziava ad andare un po’ in confusione, le suddette Time on Our Side e Best of the Broken non aiutano di certo a fare chiarezza, con la prima che pare una traccia da discoteca colma come è di suoni electro-synth, e la seconda che va a scomodare Muse, U2 e compagnia bella, per un rock/pop commerciale e un po’ alternativo che preso singolarmente non guasta, ma che nella identità complessiva dell’album pare un po’ fuori luogo. Per fortuna allora che c’è la super Eye of the Storm a rimettere un po’ di chiarezza all’insieme, suonando come una mid-tempo/ballad dalle grandi emozioni e dalla intensità crescente (specie nei momenti che anticipano il bel refrain), cantata egregiamente da un Gronwall davvero sugli scudi. Wow.
Avanti allora con l’hard rock melodico, anthemico, potente e ritmato di Blind Leads the Blind, a cui segue il nuovo crescendo emozionale della piacevole ballad We Rule, e l’adrenalinico e spensierato impatto di una Do You Want It? che – se sarà suonata live durante il tour (occhio alla data italiana al Legend Club di Milano il 5 novembre!) – farà davvero impazzire le folle. Con il sipario lasciato calare sulle note della title track Into The Great Unknown, un’altra traccia particolare che, su una base di suoni hard rock epici e classici (quasi alla Uriah Heep o alla Deep Purple), sviluppa la sua fresca melodia, senza disdegnare cambi di tempo inattesi che la fanno quasi avvicinare allo stile progressive.
IN CONCLUSIONE
Nel complesso, è difficile, se non impossibile, giudicare negativamente un album così divertente e ben suonato. Certo, è altresì vero che non ci troviamo al cospetto del migliore sforzo discografico di questi ragazzi, e che forse viste le premesse ci si poteva anche aspettare qualcosina di più, ma in un periodo di transizione musicale come quello che gli H.E.A.T stanno affrontando (o stanno tentando di affrontare) va bene anche una produzione con qualche calo di idee o di ispirazione, un po’ confusionaria, ma tutto sommato sempre solida, come questa.
Che poi almeno metà delle tracce sono di alto livello quindi.. di cosa ci stiamo lamentando?!
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