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Recensione

75/100

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Stephen Pearcy – Smash – recensione

08 Febbraio 2017 14 Commenti Matteo Trevisini

genere: Hard Rock
anno: 2017
etichetta: Frontiers Music

Tracklist:

01 - I Know I'm Crazy
02 - Ten Miles Wide
03 - Shut Down Baby
04 - Dead Roses
05 - Lollipop
06 - Hit Me With A Bullet
07 - Rain
08 - Want Too Much
09 - What Do Ya Think
10 - Jamie
11 - I Can't Take It (Album Version)
12 - Passion Infinity
13 - Summers End

Formazione:

STEPHEN E. PEARCY - voce
ERIK FERENTINOS - chitarre, cori
GREG D’ ANGELO - batteria
MATT THORN - basso
CHRIS HAGER - chitarra, chitarra principale (3)

Contatti:

https://www.stephen-pearcy.com/

 

Il quarto disco solista di Stephen Pearcy esce quasi in sordina, soffocato dall’illustre passato (…anche recente) della band madre, con quel Infestation del 2010 che aveva fatto tornare i Ratt ai fasti di un tempo grazie ad un album di gran levatura.
Soffocato dalla pantomima tragicomica degli ultimi anni dove il batterista Bobby Blotzer si è arrogato unico proprietario del nome Ratt, portando in tour (…per fortuna solo negli Stati Uniti) una formazione posticcia e pasticciata e facendo alterare i rimanenti membri originali della “fu” grandiosa band di Los Angeles. Avvocati con le bave, dichiarazioni al vetriolo e asce di guerra dissotterrate per dar battaglia al “traditore” con le news intasate da commenti dei protagonisti in una guerra da “tutti contro tutti”.
Ed è un vero peccato perché Smash è senza dubbio un ottimo album, probabilmente il miglior album solista del riccioluto singer dei Ratt. Coadiuvato da una formazione che vede Erik Ferentinos (ex Mad Architect) come chitarrista e suo partner in crime in fase di scrittura, Matt Thorne (già nei Mickey Ratt con Stephen e successivamente nei Rough Cutt) al basso e tastiere e per finire il mai dimenticato ex drummer dei White Lion Greg D ‘Angelo.

L’inizio non è promettente con un brano come I Know I’m Crazy che pesca a piene mani nei suoni alternativi di metà anni novanta, con un chorus debole e monotono.
Stephen si rifà all’istante, confezionando una gemma come Ten Miles Wide, un tipico esempio di metal sporco e cromato come solamente i Ratt sapevano fare.
Profumo sudista nella strascicata e ciondolante Shut Down Baby dove il riff circola all’infinito in modo magnetico. “…Motherfuckeeeer !!!” urla Stephen all’inizio di Dead Roses che risulta però avere lo stesso problema del brano d’apertura e purtroppo tutto il suo potenziale si sgonfia in un ritornello ipnotico ma anonimo…peccato!
La scanzonata Lollipop è glam nel senso più pop del termine con reminiscenze che portano a metà strada tra Boston e Chicago (ovvero Aerosmith e Enuff’Z Nuff!).
Grande melodia in Hit Me With A Bullet dove la voce inconfondibile di Stephen si spalma appiccicosa come la marmellata su un refrain pimpante e sbarazzino.
Le chitarre di Ferentinos stupiscono, tra tecnica e gusto, per fantasia e aggressività pescando sempre con un riff giusto al posto giusto.
La power ballad Rain è uno degli highlights di questo disco e riassume bene il bilanciamento tra le atmosfere classiche dei Ratt e un certo mood più oscuro e alternativo presente negli Arcade del decennio successivo (…se non conoscete gli Arcade, dopo esservi messi in ginocchio sui ceci, vi dirò che sono la band che Stephen ha messo su, insieme al batterista dei Cinderella Fred Coury, nella prima metà dei novanta e autori di due pregevoli lavori).
Basso pulsante e tanta atmosfera da Sunset Strip in Want Too Much, uno dei picchi assoluti del disco dove Stephen autocita se stesso in modo convincente, facendo la vecchia puttana da due soldi all’angolo tra La Cienega ed il Sunset.
Una cantilena blues risulta essere What Do Ya Think dove chitarre acustiche e quelle elettriche si baciano languidamente anche se quella elettrica fa troppo il verso ai vecchi Aerosmith.
Parte Can’t Wait on Love…ops, pardon!…questa si chiama Jamie…ma effettivamente si può cadere nel tranello e quindi punto sulla prima versione contenuta in Detonator!
I Can’t Take It è l’unica canzone dove c’è lo zampino di Beau Hill alla consolle (…e si sente!)…il suono è più patinato e “commerciale” ed il brano viaggia spedito pur non mostrando grandi picchi di originalità.
Il glam metal di Passion Infinity picchia duro con una chitarra killer in evidenza dando un’altra prova di revival anni ’80 ben riuscito.
Il disco si conclude con gli echi Zeppeliniani di Summers End, una ballata seventies che cresce esplodendo alla fine in un hard torrido e sentito.

IN CONCLUSIONE

Smash è un album che cresce lentamente – ascolto dopo ascolto – e ci riporta il buon vecchio Stephen in piena forma, magari non ai livelli di Infestation del 2010 ma ancora capace di infilare in un disco una mezza dozzina di brani che catapultano l’ascoltatore in un passato ormai remoto. La sua voce sguaiata e sporca di nicotina è ancora qua, un po’ affaticata dall’età ma ancora capace di graffiare come ai bei tempi andati. Nonostante tutto sembra che alla fine Stephen Pearcy centri il bersaglio proprio quando va a fare quello che sa fare meglio, senza andare alla ricerca di suoni e atmosfere che con il famoso “ratto” centrano poco o nulla. Bentornato!

© 2017, Matteo Trevisini. All rights reserved.

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