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11 Giugno 2016 36 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Melodic Rock / Soft Rock / Celtic Rock
anno: 2016
etichetta: Legend Records
Tracklist:
1. Home *
2. I’ll Hear You Pray *
3. Strength *
4. Every Time We Say Goodbye *
5. Days Of Summer *
6. On My Own
7. Until
8. All Our Brass Was Gold *
9. You Carried Me
10. Like The First Time
11. Along The Heather *
* migliori canzoni
Formazione:
Darren Wharton - Vocals & Keyboards
Vinny Burns - Guitars
Kevin Whitehead - Drums
Nigel Clutterbuck - Bass
Marc Roberts - Keys (live)
Contatti:
www.dare-music.com
https://www.facebook.com/darebandofficial
Un periodo di sette anni intercorsi senza un nuovo disco di inediti dei Dare può certamente essere definito come eccessivo da chi (come l’autore di questa recensione) si dichiara senza timori fan accanito di uno dei gruppi rock melodici inglesi oggettivamente più innovativi e originali di sempre. E’ però risaputo (e lo si sà quindi preventivamente quando si sceglie questa band come preferita) che le lunghe pause sono sempre state una (sofferta) caratteristica del songwriting di Darren Wharton, un compositore geniale ma in continuo bilico tra il presente (della sua formazione) e il suo passato storico, da sempre legato alla permanenza nella formazione dei leggendari Thin Lizzy, e ai suoi innumerevoli show di tributo.
Come una soap opera che non manca mai di riservare colpi di scena, ecco allora che tra un disco dei Dare e il suo successivo si potrebbero scrivere paginate di storia, parlando all’infinito di false promesse e finti annunci, di ritardi e scadenze mai rispettate, di entrate e uscite in formazione, eccetera, eccetera. Quel che è certo è che, nel riassunto di quanto accaduto dall’ultima pubblicazione di inediti Arc of the Dawn (2009) all’uscita di questo Sacred Ground (fissata per il 15 luglio), si deve certamente sottolineare l’abbandono del chitarrista Richie Dews, escluso dal gruppo (peccato..) per lasciare spazio al ritorno in pompa magna del co-fondatore e chitarrista Vinny Burns, con il bassista storico Nigel Clutterbuck.
Di fronte a questo cambiamento in seno al gruppo era perciò lecito attendersi un ritorno alle origini nel sound della band, con un riavvicinamento a quei grandiosi fasti AOR che hanno reso indmenticabili gli esordi di Out of the Silence e di Blood From Stone. Niente di più sbagliato (e no, con Sacred Ground non abbiamo neppure un nuovo Calm Before the Storm o un seguito di Belief, se era questo che sognavate). Con questo platter si apre il sipario su quella che definirei la versione 2.0 dei Dare che abbiamo imparato a conoscere, e nel mio caso amare, da Beneath the Shining Waters in poi. Infatti (salvo qualche eccezione di cui dirò nella successiva analisi traccia per traccia) il sound del gruppo rimane oggi ancora parente stretto di quel soft rock melodico delicato e rilassante, ricco di contaminazioni celtiche e ambient, che ci ha accompagnato nel recente della formazione inglese.
Il tutto è però rafforzato in primis dal ritorno possente del basso, che sostituisce la chitarra acustica di Dews dando maggiore groove e profondità di insieme ai suoni, e poi dal riffing hard rock puro del mago Vinny Burns, assolutamente sugli scudi lungo tutto il minutaggio del disco con assoli iper-melodici e passaggi di grande spessore tecnico e compositivo. E, al fianco di questi indubbi progressi esecutivi, è doveroso altresì menzionare (come determinante) il lavoro svolto in fase di produzione da parte dello stesso Wharton, autore forse della sua migliore prova in studio di sempre. Sacred Ground suona semplicemente in modo perfetto, è un dato di fatto, e anche solo per questo, scupera in qualità almeno l’80% delle pubblicazioni presenti sul mercato discografico odierno del genere.
Definito ed espresso ciò, non resta altro da fare che dedicare a una analisi attenta al songwriting dell’album. Interamente scritto dal palmo del leader Darren Wharton, il disco si divide sostanzialmente in due metà, differenti ma ben congiunte. La prima, che va dalla traccia d’apertura alla numero sei compresa, cerca di differenziarsi maggiormente dal recente passato del gruppo, proponendo spunti inediti e brillando per stile e dinamismo, mentre la seconda (che va dalla traccia sette alla chiusura) tende a ricalcare forse un po’ troppo il sound e lo stile dei due platter antecedenti, peccando per questo di minore originalità. Ma andiamo per ordine.
Tocca al brano Home l’arduo compito di rompere il silenzio dopo anni di inattività in studio, elevandosi immediatamente a simbolo dell’intero prodotto grazie al suo testo fortemente evocativo e ricco di deja-vu sul tema stilistico dei Dare. L’autore ci spiega qui il significato del titolo Sacred Ground (trad. terreno sacro): questo è la terra natia, o la patria, intesa come il posto a cui ci sentiamo di appartenere, e che chiameremmo sempre e senza esitazione casa. E’ un brano di grande impatto emotivo, che cresce di intensità dopo un avvio acustico con l’ingresso potente delle chitarre di Burns. Il suo refrain poi è corale, tutto da cantare, ed assicura al disco la giusta carica nel suo avvio.
Sostanzialmente definibile come mid-tempo, I’ll Hear You Pray è la traccia che più si avvicina al passato storico dei Dare e uno dei massimi compositivi di questa opera. Musicalmente può essere paragonata a qualche episodio più melodico di Blood From Stone (una Real Love ad esempio) e acquista grande forza dopo un esordio tipicamente acustico e ricco di atmosfera. E’ un brano in chiaro-scuro, d’amore passionale ma sotto certi aspetti triste (quando sfiorare con poeticità il tema della morte e dell’abbandono) e fortemente sorretto dalle sue liriche, che sono stupendamente interpretate da un Wharton che non sentivamo così in forma da diverso tempo. Il cantante pare quasi (ed è un discorso generico valido per tutto il disco) aver acquistato un po’ più di precisione tecnica ed estensione sulle note acute, senza tuttavia perdere nulla del suo innato e peculiare talento che frutta un calore timbrico e una potenza emotiva vocale fuori dagli standard. And if I die before I wake leave a rose on my grave and I’ll hear you pray. When I’m gone and far away close your eyes girl, I’ll hear you pray.. (e se morissi prima di svegliarmi lascia una rosa sulla mia tomba e ti sentirò pregare. Quando me ne sarò andato chiudi i tuoi occhi ragazza, ti sentirò pregare..): un assaggio del incredibile ritornello ve lo dovevo dare.
Strength, permettetemi di sbilanciarmi, indossa le vesti dorate di una perfetta hit per questo album. Il suo incipit di tastiere e voce, subito accompagnato da un ritmo pulsante e vivo, è qualcosa che solo i grandi compositori possono pensare di realizzare. La canzone poi cresce ancora di intensità, la chitarra si fa sempre più presente, il mood sempre più rock, e gli assoli di Burns sempre più caratteristici e continui. Si vengono così a creare, forse anche per merito dello stesso chitarrista, rimandi al sound dei primi Ten, creando un brano epico e di grande energia, con un testo-dedica a quelle persone che, giorno dopo giorno, accompagnano il cammino della nostra vita dandoci la forza nei momenti di difficoltà, consolandoci quando siamo affranti, regalandoci un sorriso o un abbraccio di immenso valore. E’ un brivido di quattro minuti e mezzo, indimenticabile.
Più canonica delle precedenti, Every Time We Say Goodbye è invece a tutti gli effetti una power ballad romantica in puro stile Dare che poggia salda sulle sue atmosfere crepuscolari e su uno dei più bei testi contenuti in questo album. Inutile ripetere che, su liriche di questa portata, l’interpretazione di Wharton assume i caratteri e il valore di una lettura potetica di un Leopardi o un qualsivoglia genio della letteratura. Quindi è giusto regalarvi ancora un piccolo spaccato di queste note: I see when the seasons change, in every drop of falling rain, in the colours of rainbows and every drop of falling snow. Every time we say goodbye, you’re still with me by my side (ti vedo quando cambiano le stagioni, in ogni goccia di pioggia che cade, nei colori dell’arcobaleno e in ogni fiocco di neve. Ogni volta che ci diciamo addio, tu sei ancora qui con me, al mio fianco). Romanticismo ai massimi livelli.
Della quinta canzone Days of Summer si ricorda invece il suo sound di immediato appeal, che cattura l’immaginario fin dal primo ascolto imitando, ad esempio in Arc of the Dawn, la magnifica Kiss The Rain. E’ un pezzo sostentuto, di grande energia ed intensità, reso incredibilmente cinematico da orchestrazioni di fondo totalmente inedite per il sound dei Dare, che ci danno un’importante sensazione di movimento temporale tra ricordi passati e conosciuto presente. L’argomento principale del brano? Le memorie felici di giorni d’estate vissuti al fianco di una lei mai dimenticata!
A chiudere la prima metà del disco è On My Own, il primo singolo del disco. E’ una canzone fortemente debitrice del sound dei Thin Lizzy (ascoltate le armonie delle chitarre), nonostante il suo sound sia chiaramente parente stretto dello stile country di oltreoceano (la strofa, in particolare, ricorda Country Rhoads di John Denver) e in parte anche del pop commerciale moderno (il refrain). Abbiamo qui un pezzo molto orecchiabile e di facile memorizzazione, perfetto per i passaggi radiofonici, da canticchiare guidando in automobile, o nella doccia. Di rilievo anche qui il testo: Some say I’m a dreamer but I’m a rolling stone, I just turn on my radio, my music takes me home (alcuni dicono che sono un sognatore, ma sono un girovago, accendo la mia radio, la mia musica mi riporta a casa).
Le influenze celtiche, fin qui presenti ma un po’ più sulla porta rispetto ad altre occasioni, salgono in cattedra in Until e, come dicevo in precedenza, il platter cambia sostanzialmente il suo stile e la sue sonorità. Abbiamo allora una canzone in stile Beneath the Shining Waters nella quale si respira in modo più determinante l’aria fresca e umida del Regno Unito, un po’ come accadeva in Belief. Il terreno sacro che nell’opener Home era soltanto esaltato è ora toccato con mano, e con lui si assaporano la sua cultura e le sue tradizioni. Ecco allora che anche gli ooh ooh corali, che colorano alcune delle strofe di questa canzone, rimandano ai canti folk popolari inglesi e, in sostanza, alle radici del gruppo, trasportandoci nello spazio e nel tempo lungo valli incantate e fresche rive.
A livello strumentale e compositivo All Our Brass Was Gold ricorda tanto la già conosciuta Shelter in the Storm. Abbiamo infatti una nuova canzone soft d’amore ricca di delicate chitarre, dotata di liriche passionali capaci di toccare immediatamente il cuore e capaci, unite all’interpretazione di Wharton, di sopperire a quella mancanza di originalità compositiva che, in queste ultime tracce, inizia via a via ad emergere. Those were the best days of our lives, and these are the treasures we’ll hold, those were the best days of our lives when the stars in the sky were diamonds in your hair and all our brass was gold (quellierano i migliori giorni delle nostre vite, e questi sono i tesori che ci porteremo dentro, quelli erano i più bei giorni delle nostre vite, quando le stelle nel cielo erano diamanti tra i tuoi capelli e tutto il nostro bronzo era oro). Il testo decisamente non delude.
La piacevole You Carried Me vede scemare l’importanza strumentale di Burns e Clutterbuck (fatta eccezione per un gustoso assolo finale), lasciando salire in cattedra il solo Wharton. Se (musicalmente) è questo il pezzo più debole del disco, è altresì vero che le emozioni e i sentimenti sprigionati dalle sue melodie disegnano forse le migliori immagini, portando l’ascoltatore a immedesimarsi immediatamente nella canzone, tra ricordi passati ed emozioni vissute.
Analogamente, Like The First Time scivola via senza particolari sfoggi tecnico-compositivi, riprendendo (specie nel suo inizio) le melodie di Last Train (tratta ancora da Beneath The Shining Waters). E’ una ballad molto calda ed avvolgente, che narra sotto nuove vesti quel racconto d’amore che ha fatto le fortune del gruppo in tracce antiche come White Horses (Lion’s Heart) o la già citata Kiss The Rain. La distanza tra i due innamorati diventa, nel testo, il messaggero della passione, e il ricordo dei giorni passati (in quell’istante si unirono e fecero l’amore per la prima volta) l’inseparabile punto di unione del loro sentimento. Molto intensa.
Infine, Along The Heather. Senza ombra di dubbio la più bella canzone della seconda metà del disco, il brano apre con una bella intro di tastiere accompagnata da una originale chitarra elettrica (suonata inizialmente acustica), su cui entrano prima gli immancabili echi strumentali, e poi la voce di Wharton. Gustosi inserimenti di tastiere colorano il pezzo di tonalità vivaci, dando un gusto particolare (di fresca aria sotto un caldo sole) al refrain e alle liriche, che chiudono il cerchio dell’opera con una esplosione di ricordi che spinge verso il defintivo e tanto atteso ritorno a casa. I’m running down the heather, I’m running to the sea, all along the heather, I’m going home, where I belong (Sto correndo lungo l’edera, sto attraversando il mare, tutto lungo l’edera sto tornando a casa, al posto a cui appartengo).
IN CONCLUSIONE
Ho seriamente faticato a mostrarmi il più possibile oggettivo e critico nei confronti di una band verso la quale nutro una venerazione fuori dal comune. Chi mi conosce di persona, o chi da lungo mi legge su queste pagine, sa di cosa sto parlando. Voglio perciò separare il mio commento finale in due parti, la prima dettata dal cuore, la seconda dalla testa.
Il cuore mi dice che Sacred Ground è il miglior album che ci potevamo aspettare dai Dare, e un instant classic da tramandare ai posteri come esempio perfetto di rock melodico passionale, caldo e comunicativo. E’ un platter che non ci si stanca di ascoltare e che deve figurare nelle collezioni degli appassionati, tra gli altri titoli immortali di questo gruppo. Per me, è il disco dell’anno.
La testa mi ricorda però che, nonostante i sette anni intercorsi tra questo album di inediti e il precedente, i Dare non sono stati in grado di rivoluzionare il loro sound e di mantenere la loro promessa di dare vita a una nuova produzione in linea con i propri esordi. Sacred Ground si mostra però come un miglioramento del recente passato ed è un album di tutto livello, degno di essere apprezzato anche da chi è meno consono a questo genere di musica. Insomma, non delude.
E stop, questo è quanto. Da 10 per il cuore, da 8 per la mente: il mio giudizio finale di Sacred Ground è 9. Come mi piace sempre citare: vada ora ai posteri l’ardua sentenza..
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