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29 Luglio 2011 2 Commenti Iacopo Mezzano
genere: Progressive Rock
anno: 2011
etichetta: Frontiers Records
Tracklist:
1. Fly from Here - Overture - 1:53
2. Fly from Here - Pt I - We Can Fly - 6:00 *
3. Fly from Here - Pt II - Sad Night at the Airfield - 6:41 *
4. Fly from Here - Pt III - Madman at the Screens - 5:41
5. Fly from Here - Pt IV - Bumpy Ride - 2:15
6. Fly from Here - Pt V - We Can Fly (reprise) - 1:44
7. The Man You Always Wanted Me to Be - 5:07 *
8. Life on a Film Set - 5:01
9. Hour of Need - 3:07 *
10. Solitaire - 3:30
11. Into the Storm - 6:54
* migliori canzoni
Formazione:
David Benoît - Voce
Steve Howe - Chitarra
Chris Squire - Basso
Alan White - Batteria
Geoff Downes - Tastiere
Non c’è Jon Anderson allora non mi interessa e non lo ascolto. Quanti di voi hanno pensato così (o proprio agito così) leggendo la formazione di Fly From Here, ennesima fatica degli storici maestri del prog rock, i britannici Yes, tornati alle scene in questo 2011 dopo 10 anni di assenza in studio con la nostrana Frontiers Records. Quanti?
Va beh, la vostra timidezza la sciolgo io e vi dico che si, la mia intenzione era quella di non ascoltare (o comunque rimandare all’infinito l’ascolto di) questo lavoro. No, l’assenza di Anderson proprio non mi andava giù. Poi però, leggendo ottimi commenti qua e la e vedendo il video ufficiale di We Can Fly che trovate a fine articolo, mi sono fatto convincere. La chance ai nuovi Yes gliel’ho voluta dare ed ecco quindi qui le mie impressioni riguardo.
LE CANZONI
Includendo l’intro (Overture) della durata di circa due minuti, sono sei le parti che formano la lunga suite iniziale omonima Fly From Here che apre questa nuova fatica degli Yes. Un componimento, questo, ripescato dalla band tra le tracce accantonate in fase di realizzazione dello storico disco Drama del 1980. A confermarlo infatti è il sound, squisiramente antico e legato alla fase storica degli anni’80 della band inglese, quella più vicina al neoprogressive e di incontro con le sonorità melodiche che andavano alla grande nel business musicale di allora (e, forse per questo, quella più commerciale e che più ha fatto storcere il naso ai fans di vecchia data).
Già dall’intro stupiscono gli arrangiamenti squisitamente curati, sontuosi,con gli strepitosi intrecci tra tastiere e corde. Credetemi, a discapito dell’età gli Yes hanno ancora molto, moltissimo da insegnare. We Can Fly parte con un breve esordio di tastiera e poi è la voce di David Benoît a governare la scena fino all’esplosione elettrica della band. Il nuovo cantante riesce a far dimenticare per lunghi tratti lo storico Jon Anderson grazie a una vocalità molto simile alla sua (non a caso David è stato scovato dalla band su youtube perchè si esibiva proprio in una cover band degli Yes) ma che sa differenziarsi toccando tonalità spesso inedite. I cori che supportano la sua voce (che vantano anche la presenza di Trevor Horn) sono un tuffo nel passato, al pari delle squisite atmosfere e delle sensazioni che l’ascolto sprigiona, con quello stesso profumo di purezza che ascoltavamo 30 anni fa, come se la band si fosse ibernata allora per presentarsi oggi in questo splendido stato.
Brividi lungo la schiena durante tutta la parte iniziale di Sad Night at the Airfield, con quell’arpeggio straordinario di Howe che indirizza il pezzo e non a caso verrà riproposto lungo tutta la durata del brano. Ancora ottime le atmosfere in quella che personalmente è la parte che preferisco dell’intera suite, grazie al gusto melodico perfettamente mischiato e integrato a una concezione progressiva tipica della band ma soprattutto di Howe, qui vero regista con i suoi riff leggeri ma soprattutto con i suoi assoli mai banali e sempre al giusto posto, stupendamente intrecciati con i giri di basso assoluti di Chris Squire, altra fondamentale colonna degli Yes, sempre in perfetta forma.
E’ ancora la tastiera a suddividere le parti della suite presentandoci ora Madman at the Screens, il periodo forse più accesso e progressivo del lotto, che da molto spazio e al lavoro di batteria di Alan White, fondamentale nello scandire i tempi del pezzo attraverso i continui rallentamenti/accelerazioni, e all’esecuzione sempre precisa di Geoff Downes alle tastiere, in grade rilievo. Sopraffino anche il songwriting.
Come un simpatico motivetto corre via Bumpy Ride, una sezione che pare, specie una sigla da cartone animato per come è impostata sull’ironica scherzosità della meloda portante. In chiusura, il rallentamento riprende quanto espresso in precedenza dando il via alla chiusura Reprise che riprende il ritornello di We Can Fly e chiude in fading dopo un nuovo assolo della band i quasi 25 minuti della suite.
The Man You Always Wanted Me to Be ha l’arduo compito di essere il primo brano dopo la maestosa suite. Si rivela essere un’altra piacevole cavalcata neoprogressive, intervallata da piacevoli momenti strumentali e da un’ottima coralità, vocale e di insieme. Ancora in rilievo le parti di chitarra.
Life on a Film Set esordisce con un arpeggio, scusate il paragone, alla Nothing Else Matters dei Metallica, per poi evolversi via via mantenendo a lungo inalterati i tratti da rock ballad. Certo che gli arrangiamenti, qui ancora più che in altri pezzi, sono di un accuratezza assoluta. Pregievole l’intermezzo acustico accompagnato da un ottimo lavoro di tastiere a centro pezzo, davvero positiva la prestazione vocale di Benoît, abile a gestire la continua irregolarità del componimento.
Hour of Need esalta per l’innovativa linea melodica, avvalorata anche dal doppio lavoro vocale voce acuta-voce bassa. Intanto la chitarra acustica mantiene il brano leggero e si incorpora a meraviglia con il basso e la tastiera, come in una leggiadra corsa. Pezzo davvero convincente.
Una strumentale acustica dalle mille sensazioni è la penultima canzone Solitaire, che lascia libero sfogo a tutta la capacità di Howe di saper trasmettere sensazioni e sentimenti attraverso le corde del suo strumento. Semplicemente un pezzo da ascoltare in silenzio, meravigliandosi.
Chiude Into the Storm, pezzo elettrico dal gusto progressivo molto più vivace che nelle altre occasioni. E’ un brano in continuo divenire, ricco di cambi di tempo e ai limiti del psichedelico, basti sentire cosa fanno gli strumenti sotto le linee vocali. Benoit, che qui partecipa in modo attivo anche in fase compositiva, apporta certamente le sue influenze musicali ma tende ancora molto ad assomigliare a Anderson. Non che questo sia un difetto! Ancora un ultimo plauso al genio di Howe attraverso uno splendido assolo e il pezzo, lentamente, si chiude a sfumare.
IN CONCLUSIONE
Non c’è Jon Anderson allora non mi interessa e non lo ascolto. Balle, che stupidata. Se avessi continuato a pensarla così oggi le mie orecchie sarebbero prive di quello che è il miglior album degli Yes da 30 anni a questa parte. Fly From Here è bello, davvero un grande ritorno. Questo 2011 è l’anno dei miracoli discografici, ora inizio davvero a crederlo. David Benoît non fa rimpiangere nulla. Steve Howe, Chris Squire e Alan White sono i soliti pilastri portanti del sound Yes, intaccati nel fascino e nel gusto musicale. Geoff Downes è una garanzia, non a caso è il “maestro” degli Asia, da cui porta un buon bagaglio di influenze. L’artwork di Roger Dean è roba di altri tempi, come la produzione di Trevor Horn. Il sound è genuino, dipendente dai fasti del passato ma a suo modo ancora innovativo. Le melodie rapiscono l’ascoltatore e lo portano verso mondi incontaminati e per questo sconosciuti. Insomma, meglio di così non credo si potesse fare in questo 2011 e non credo ci si potesse aspettare. La nostalgia degli anni’70/’80 è stata degnamente appagata. Bentornati Yes!
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