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Classico

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Temple Of The Dog – Temple Of The Dog – Classico

15 Febbraio 2025 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1991
etichetta: A&M
ristampe:

Tracklist:

1.Say Hello 2 Heaven
2.Reach Down
3.Hunger Strike
4.Pushin' Forward Back
5.Call Me a Dog
6.Times of Trouble
7.Wooden Jesus
8.Your Saviour
9.Four Walled World
10.All Night Thing

Formazione:

Chris Cornell - voce
Stone Gossard - chitarra
Mike McCready - chitarra
Jeff Ament - basso
Matt Cameron - batteria

Ospiti:

Eddie Vedder - voce in Hunger Strike, cori in Pushin' Forward Back, Your Saviour e Four Walled World
Rick Parashar: Tastiere

 

C’era un tempo in cui tutto veniva vissuto con molta più leggerezza, dando più importanza alla sostanza che alla forma. Nel 1991, l’ondata grunge si stava abbattendo con furia sul music business mondiale, ma noi, amanti del rock e dell’hard rock melodico, o almeno io, pur osservando questo fenomeno di sbieco e con un certo scetticismo, mai avremmo immaginato che, nel giro di un anno, avrebbe soppiantato il nostro genere preferito nelle classifiche di vendita, relegandoci progressivamente a una posizione sempre più marginale e di nicchia.

Sinceramente, guardando i video su Videomusic e vedendo alternarsi, che so, i Giant con ‘Lost In Paradise’ e i Temple of the Dog con ‘Hunger Strike’, non mi sembrava affatto strano, né tantomeno un presagio di sventura, ma anzi un arricchimento culturale del panorama rock.

A dirla tutta, il grunge non mi è mai nemmeno piaciuto granché: i dischi che ho apprezzato e che possiedo si contano sulle dita di una mano. Tuttavia, non ho mai partecipato volentieri alla caccia alle streghe che identifica la nascita di quel genere come la morte dell’hard rock, perché, a mio avviso, si confonde il sintomo con la malattia. In realtà, è stato il sistema discografico americano a puntare sul grunge come fenomeno di massa su cui concentrare gli sforzi promozionali, giudicandolo in quel momento assai più redditizio rispetto a ciò che aveva proposto fino ad allora. Salvo poi abbandonarlo dopo pochi anni per virare su altro, in un triste ciclo che punta solo al business, lasciando l’arte in secondo piano.

Tutta questa pappardella serve a ‘giustificare’ la presenza di questo disco nella nostra sezione classici, affinché nessuno gridi allo scandalo per la presenza di un disco grunge tra i classici del nostro sito. Tanto più che ‘Temple of the Dog’ non è affatto un disco grunge, o almeno non lo è per la maggior parte, ma è semplicemente un grande disco rock realizzato da musicisti che hanno partecipato attivamente, anche nella loro migliore incarnazione, alla scena di Seattle. E per me, questo basta ad includerlo tra i nostri classici.

L’idea di “Temple of the Dog” nasce dal profondo dolore di Chris Cornell, storico cantante dei Soundgarden e compagno di stanza di Andrew Wood, frontman dei Mother Love Bone. Scosso dalla tragica morte dell’amico, Cornell scrive due brani in suo onore: “Say Hello 2 Heaven” e “Reach Down”. Per realizzare questo progetto, Cornell si circonda di musicisti legati a Wood: Stone Gossard e Jeff Ament, ex membri dei Mother Love Bone, Mike McCready, chitarrista, e Matt Cameron, batterista dei Soundgarden (che in seguito entrerà anche nei Pearl Jam). Un altro volto familiare della scena musicale, Eddie Vedder, all’epoca nuovo cantante dei Pearl Jam, partecipa come guest vocalist, contribuendo ai cori e duettando con Cornell in “Hunger Strike”. Questo brano segna uno dei primi momenti significativi nella carriera di Vedder, che considererà sempre “Hunger Strike” una delle canzoni più importanti della sua carriera.

“Temple of the Dog” non è solo il risultato di un dolore profondo, ma anche di un’amicizia che trova la sua massima espressione nella musica. Registrato in soli quindici giorni a Seattle, l’album cattura l’essenza di un momento irripetibile, dove il dolore si sublima in arte. Come accennato, definire “Temple of the Dog” unicamente come un album grunge sarebbe limitante. Pur essendo radicato nella scena musicale di Seattle, il disco abbraccia anche influenze che vanno oltre i confini del genere, come il blues e il soul, in particolare nelle ballate, che conferiscono un’anima calda e malinconica all’album. La pesantezza tipica dei Soundgarden si fonde perfettamente con la melodia dei Pearl Jam, creando un suono unico che trascende il tempo e il genere, e ciò risulta assolutamente evidente analizzando le canzoni.

L’album si apre con “Say Hello 2 Heaven”, una canzone che avvolge l’ascoltatore come un abbraccio di luce. La voce di Chris Cornell, limpida e potente, trova la sua perfetta compagna nella melodia, creando un equilibrio che naviga tra intensità e delicatezza, come un fiume che scorre placido sopra una roccia levigata dal tempo. Il viaggio prosegue con “Reach Down”, un’epopea musicale che si estende per oltre undici minuti, trasportando chi ascolta in un paesaggio sonoro che alterna blues psichedelico e libertà improvvisativa. Ogni nota sembra respirare, ogni riff di chitarra dipinge una storia che prende forma mentre ascoltiamo. Poi arriva “Hunger Strike”, il cuore pulsante dell’album, con il duetto tra Cornell e Vedder che esplode come un temporale estivo, improvviso e potente. Le loro voci si intrecciano come due forze naturali, ognuna combattendo per emergere, ma poi unendosi in un coro che diventa il grido di una generazione che chiede di essere ascoltata.

Con “Pushin’ Forward Back”, l’energia cresce, il ritmo accelera come un treno in corsa che non si ferma mai. Il basso, incisivo e tagliente, spinge il brano in avanti, mentre la voce di Cornell, calda e blues, infonde nuova vita al pezzo. “Call Me a Dog” è un anfratto di malinconia, una ballata intima ed emozionale dove il piano e la chitarra si uniscono delicatamente, raccontando di dolori e speranze. L’assolo di chitarra finale esplode come una luce nel buio, lasciando una scia indelebile nel cuore. “Times of Trouble” ci trasporta in un mondo tormentato, dove l’armonica di Cornell evoca immagini di desolazione e ricerca di redenzione. Ogni respiro, ogni nota, sembra raccontare una lotta interiore tra luce e tenebre.

“Wooden Jesus” è un gioco di ritmi e suoni inaspettati. Le percussioni si intrecciano con l’assolo di chitarra wah-wah, creando una danza sonora che sembra oscillare tra il sacro e il profano. Il banjo aggiunge una dimensione rustica e fresca, che sorprende e affascina allo stesso tempo. “Your Saviour” esplode come un vulcano di energia, un brano che si muove tra ritmi funky e una forza travolgente, come un uragano che spazza via ogni dubbio. Con “Four Walled World”, l’album entra in un territorio psichedelico. La chitarra slide si snoda come un sogno che si allunga nel tempo, mentre le armonie vocali, dolci e malinconiche, creano una sensazione di sospensione, come se il mondo intero si fermasse per un istante. Infine, “All Night Thing” ci guida verso una quiete profonda, un’ultima riflessione che scivola delicatamente verso la pace. L’organo Hammond arricchisce la traccia con un respiro soul che chiude il viaggio musicale con una sensazione quasi di serenità.

A ulteriore conferma del fatto che “Temple of the Dog” ha un legame solo formale con la scena grunge, il suo iniziale insuccesso commerciale è significativo. Il vero successo dell’album è arrivato in seguito, grazie alla crescente notorietà dei Soundgarden e dei Pearl Jam, che ha portato alla riscoperta del disco, rendendolo un classico. Oggi, ‘Temple of the Dog’ è venerato come una testimonianza indelebile della scena musicale di Seattle, oltre a rappresentare un tributo commovente a un artista scomparso prematuramente, creato da un altro grande talento che, tristemente, ci ha lasciato anch’egli troppo presto.

In conclusione, “Temple of the Dog” è un album imprescindibile per chiunque apprezzi la musica autentica e carica di emozioni, al di là delle etichette di genere.

© 2025, Samuele Mannini. All rights reserved.

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