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Recensione Classico

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Classico

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Royal Hunt – Moving Target – Classico

05 Gennaio 2025 0 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Metal
anno: 1995
etichetta: Rondell/Seagull
ristampe:

Tracklist:

1 Last Goodbye 6:33
2 1348 4:32
3 Makin' A Mess 4:00
4 Far Away 4:58
5 Step By Step 5:11
6 Autograph 3:36
7 Stay Down 4:21
8 Give It Up 4:01
9 Time 4:53

10 Far Away (acoustic) bonus track

Formazione:

Jacob Kjaer : guitars
Steen Mogensen : bass
Kenneth Olsen : drums
Andrè Andersen : keyboards, guitars
D.C. Cooper : lead and backing vocals


Ospiti:

Lise Hansen (backing vocals)
Maria McTurk (backing vocals)

 

Negli anni ’90, le uscite di AOR e Hard Rock melodico si trovavano col lumicino, quindi, sentendomi in carenza di nuovi dischi, cercavo nei versanti più melodici del metal per trovare qualcosa che stimolasse la mia voglia di scoperta. Erano gli anni del power metal e il panorama musicale del 1995 seguiva molto questo filone. Nel frattempo, mi ero votato parecchio al sound degli Stratovarius quando vidi su Flash una recensione, scritta da tal SN, di uno sconosciuto (almeno a me) gruppo danese, a cui avevano assegnato un roboante 90. La recensione (di cui conservo un ritaglio) citava Queen, Styx e Symphony X, con commistioni tra musica classica e metal nordico, ingredienti perfetti per accendere la mia curiosità.

Moving Target rappresenta l’album della svolta per i Royal Hunt. Nei precedenti lavori, la band si muoveva in territori più vicini all’hard rock, integrando elementi sinfonici che, tuttavia, non venivano pienamente valorizzati. Questo scenario cambia radicalmente con l’arrivo del cantante americano DC Cooper, il cui timbro e straordinaria estensione vocale hanno permesso al gruppo di esplorare una direzione sonora più articolata e completa. Ne è risultato un sound che unisce elementi barocchi della musica classica, tanto cari al tastierista e songwriter André Andersen, a ritornelli memorabili, in grado di creare il perfetto hook per catturare l’audience giapponese. Non a caso, l’album ha riscosso un enorme successo in Giappone, vendendo oltre 200.000 copie.

Lungo l’intero disco si percepisce una raffinata fusione di influenze: dal metal melodico scandinavo agli arrangiamenti pomp, che arricchiscono il sound senza appesantirlo, donandogli una lucentezza abbagliante. A ciò si aggiunge un concept profondo e universale, che invita l’ascoltatore a riflettere su tematiche sociali, come il rapporto tra l’uomo e Dio, la violenza e la sofferenza, e la ricerca di un significato nella vita.

Anche la copertina dell’album ha una storia significativa: raffigura le rovine dell’Institut Jeanne d’Arc, una scuola cattolica francofona a Copenaghen distrutta accidentalmente durante un bombardamento della RAF nel marzo del 1945. Sebbene l’obiettivo del raid fosse il quartier generale della Gestapo, alcune bombe colpirono edifici vicini, tra cui la scuola. L’immagine riflette perfettamente il messaggio dell’album: nella vita, tutti siamo potenzialmente bersagli delle avversità.

Ogni brano è un viaggio emotivo, guidato dalla voce potente di D.C. Cooper e dagli arrangiamenti maestosi di André Andersen.

Si comincia con “Last Goodbye”, un uomo si ritrova solo, perso nell’incubo della dipendenza, con l’eco di un addio che risuona nella sua mente. La sua preghiera disperata, rivolta a un cielo che sembra distante, si leva come un ultimo barlume di speranza. Il brano si apre con un’introduzione orchestrale evocativa creata con la tastiera di Andersen, e culmina in un assolo mozzafiato che lascia un senso di struggente malinconia. La lettura del Padre Nostro lega questo “ultimo addio” con la seguente “1348”, un’ombra oscura si allunga sull’Europa, dove la peste nera miete vittime, trasformando città fiorenti in cimiteri silenziosi. La voce di Cooper si eleva in un lamento straziante, dipingendo un quadro apocalittico di un mondo in preda al caos. Le tastiere di Andersen creano un’atmosfera tetra e opprimente, amplificando il senso di tragedia.
“Makin a Mess” è una cavalcata che parla di un soldato catapultato nella battaglia e del suo animo, che si trova ottenebrato da questo incubo di violenza che prende il sopravvento su ogni cosa.
“Far Away” è una power ballad da manuale struggente inno a coloro che ci hanno lasciato troppo presto, celebrando così il legame eterno del sentimento.
“Step By Step” a dispetto del suo incedere allegrotto e funky, narra di un viaggio nel degrado a cui passo dopo passo, purtroppo, ci abituiamo.
“Autograph” è un brano strumentale dove Andersen sfoggia tutta la sua tecnica e le sue influenze e funge da intermezzo legandosi quasi naturalmente a “Stay Down” che si distingue per la sua spontaneità emotiva e la sua crudezza, riflettendo la disillusione e la disperazione raccontate nel testo.
Nell’inizio di “Give it Up” io avverto echi Queensrÿche, anche se poi la canzone si svolge con immediatezza riflettendo la disillusione che pervade il testo.
Chiude la trionfale cavalcata di “Time” che sintetizza gli elementi del metal più sinfonico presenti nel disco e l’eleganza delle melodie trattando del tempo e dell’uso non sempre ideale che gli esseri umani ne fanno.

Insomma, cosa volere di più nel 1995? Melodia, tecnica, arrangiamenti sublimi e un uso magistrale dei cori per un disco che non solo ha surrogato la carenza di rock melodico di quegli anni, ma ha anche aperto una nuova finestra su un genere meraviglioso. Un disco che ha avuto la capacità di unire sia il metallaro più duro che il meldiomane più accanito, ma in fondo so benissimo che piace anche a moltissimi di voi.

 

© 2025, Samuele Mannini. All rights reserved.

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