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Recensione

90/100

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Deep Purple – =1 – Recensione

05 Agosto 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Ear Music

Tracklist:

01 – Show me
02 – A bit on the side
03 – Sharp shooter
04 – Portable door
05 – Old fangled thing
06 – If I were you
07 – Pictures of you
08 – I’m saying nothing
09 – Lazy sod
10 – Now I’m talkin’
11 – No money to burn
12 – I’ll catch you
13 – Bleeding obvious

Formazione:

Ian Gillan: Vocals
Roger Glover: Bass, Vocals
Ian Paice: Drums, Percussion
Don Airey: Keyboards, Organ
Simon McBride: Guitars

Contatti:

https://deeppurple.com/
https://www.facebook.com/officialdeeppurple
https://www.instagram.com/deeppurple_official/
https://x.com/_DeepPurple
https://www.youtube.com/user/deeppurpleos

 

Ma siamo nel 2024 o nel 1972? Beh, l’ugola di Ian Gillan ci fa capire che la prima ipotesi è quella giusta, ma per il resto, questi signori che veleggiano felicemente verso l’ottantina, ci riportano al periodo d’ora della band e senza ripetersi pedissequamente, ma prendendo i loro inossidabili marchi di fabbrica e portandoli ai tempi attuali, grazie, presumo, anche all’innesto di Simon McBride, che seppur abbia portato linfa nuova grazie alla sua carta d’identità più recente, ridà quel tocco british che che con Steve Morse si era un po’ affievolito.
E parliamo subito dell’ex chitarrista, spiegando che il suo abbandono, già dal 2022, era dovuto in parte ad una fastidiosa tendinite che lo affliggeva da anni e che, progressivamente gli rendeva suonare la chitarra sempre più difficoltoso e doloroso, ma soprattutto per stare al fianco della sua Janine la quale ha, nel frattempo perso la sua battaglia contro il male più bastardo di sempre; se Steve aveva dato un tocco più visionario e a volte jazz, alle composizioni dei Deep Purple, il buon McBride riporta la band alle origini, con i suoi riff saltellanti debitori della nwobhm (la cui nascita va attribuita in qualche modo anche ai Purple) che ha toccato da vicino grazie alla partecipazione ai primi due album degli Sweet Savage, il tutto traslato nell’universo della band di Hertford a ricreare le tante sfaccettature dovute alle varie Mark e così troviamo nella ritmata opener “Show me”, quegli scambi chitarra/tastiera che una volta erano il marchio di fabbrica di Ritchie Blackmore e Jon Lord, e un istrionico cantato di Ian Gillan che, giocoforza, non riuscendo più a raggiungere le inenarrabili vette del periodo 1969-1973, si modula su un approccio teatrale che fa capire ancora una volta quanto sia grande la figura di questo storico frontman, il quale si ripete lungo tutta la durata dell’album, che comunque presenta diverse sfaccettature, pur rimanendo aggrappato allo stile che ha reso questa band la più grande mai esistita in ambito hard rock.
Questi diversi lati del poligono Purple si sentono nei rimandi a “Stormbringer” (il brano) della successiva “A bit on the side”, nell’approccio rock’n’roll di “Sharpshooter”, nei rimandi evidenti ai tempi di “Machine Head” del primo singolo “Portable Door”, ma…a questo punto mi domando se, nel 2024, ha senso fare una recensione track by track di un album dei Deep Purple e mi dico, no, non ha molto senso, perché dei Deep Purple sappiamo tutto, sappiamo che viaggiano tranquillamente tra il prog, l’hard, il blues, il funky e addirittura il metal, cosa che fanno bellamente anche nel secondo singolo “Pictures of you”, il quale viaggia su territori più ottantiani, nel terzo “Lazy Sod”, intriso di blues e hard fino al midollo e nella conclusiva “Bleeding obvious”, che lascia spazio a partiture prog, reminiscenza dei primi anni della band, ci sono anche due ballad a chiudere il cerchio del ventitreesimo album in studio di Ian Paice e soci, ossia “If I were you” e “I’ll catch you”, e una sferzata metallica con “Now you’re talking”; bisogna però segnalare l’ennesima produzione da urlo del guru Bob Ezrin, che se non sapete con chi ha lavorato, abbandonate immediatamente questa pagina, Pink Floyd, Kiss e Alice Cooper possono bastare? Pulita, ma potente, porta la immarcescibile sezione ritmica Glover/Paice sugli scudi, mentre Don Airey e Simon McBride sentono i loro strumenti con un tocco vintage, ma paradossalmente moderno e incisivo.
Cosa resta da dire ancora che non sia già stato detto di questo album? Forse che a livello di grafica avrebbero potuto impegnarsi un po’ di più, per usare un eufemismo, ma che gli vuoi dire, sono i Deep Purple e dobbiamo ringraziare diverse divinità per averceli conservati ancora in questa splendida forma dopo cinquantasei anni dalla loro formazione e questo può voler dire due cose: una, che il panorama hard rock è talmente fermo e stantìo che bisogna aspettare ancora loro per sentire dell’ottima musica e l’altra è che per fortuna ci sono ancora loro, che possono insegnare alle giovani leve come si fanno grandi album, magari ci si tira fuori da questo attuale deserto chiamato hard rock…

© 2024, Giorgio Barbieri. All rights reserved.

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