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28 Febbraio 2024 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: pride & joy
Tracklist:
01 – Time to rise
02 – High on life
03 – Going blind
04 – Free your spirit
05 – Forged in fire
06 – Stardust in mirror
07 – Last call
08 – Can’t get you out of my head
09 – Dancing in the rain
10 – See what you believe
Formazione:
Thomas Nordin: Vocals
Anders La Rönnblom: Bass guitar, Rhythm Guitar, Piano
Tracii Guns: Lead and rhythm guitar
Rudy sarzo: Bass guitar
Shawn Duncan: Drums
Leif Ehlin, David Stone: Keyboards and Hammond
Ospiti:
Bjorn Englen: Bass on ‘Going blind’
Contatti:
https://www.facebook.com/OfficialSocialDisorderSweden
https://www.instagram.com/socialdisordersweden/
https://twitter.com/disordersweden
L’ennesimo supergruppo assemblato per fare qualcosa di magniloquente, ma forzato? Non mi sento di giudicare così la creatura di Anders La Rönnblom, che vive sicuramente nel passato, ma che perlomeno mi dà l’impressione di scrivere canzoni sanguigne, senza troppi fronzoli, certo, il nome che evoca qualcosa di punk (chi ha detto Social Distortion?) non rende assolutamente l’idea, ma è anche vero che nell’album sono inseriti degli spunti di ribellione pacifica a livello di testi che non si allontanano molto sia dal monicker, che dal titolo dell’album.
Album, che a dire il vero, cresce con gli ascolti, ma che rimane un po’ altalenante, stile “vorrei, ma non posso” per non uscire troppo dai canoni dell’hard rock, eseguito, ci mancherebbe altro dati i nomi coinvolti, molto bene, forse solo l’anima sleaze di Tracii Guns, autore comunque di alcuni assoli pregevoli, viene un po’ sacrificata e il suo apporto è probabilmente quello più asettico, magari perché il classico hard rock settantiano venato di metal melodico, non è la sua “cup of tea”, ma non per questo la band sembra slegata, anzi e nel caso di progetti del genere non è una cosa assolutamente scontata. Dicevo della progressiva crescita dell’album, non tanto agli inizi, ma con il passare delle canzoni, che colpiscono più nel segno quando il disco è già inoltrato, difatti si parte con il classico hard rock della title track che ricorda Rainbow e Royal Hunt, con un piccolo tocco di modernità nelle tastiere, ma decisamente scontato, cosa che si ripropone anche nella successiva ‘High on life’, hard rock dall’incedere imponente, un po’ inconcludente nel ritornello, salvato da un assolo di gusto di Tracii, comincia poi l’ascesa perlomeno a livello di intensità con ‘Going blind’, pezzo più vigoroso, supportato da un riff quasi metal e da un tenebroso hammond, il problema che si comincia a delineare qui e che già aveva fatto capolino nelle due canzoni precedenti, sono le vocals, non tanto nell’estensione un po’ limitata sui toni alti di Thomas Nordin, ma nella costruzione vera e propria delle parti vocali, troppo riempite di cori che vanno a coprire l’immediatezza dei ritornelli, cosa che sparisce all’improvviso con ‘Free your spirit’, ballad ariosa piena di pathos nella quale troviamo un lead singer finalmente a suo agio, con un testo pieno di clichè, ma che esorta a non piegarsi e a mantenersi uniti; l’andamento ondivago prosegue con ‘Forged in fire’, se l’opener era un classico rimando ai Rainbow, qui si sfiora il plagio e dopo la sferzata di freschezza di ‘Free your spirit’, seppur sia un pezzo ben costruito, il già sentito prende il sopravvento e segna un piccolo passo indietro, ‘Stardust in mirrors’ seppur non facendo niente di nuovo, ha un incedere coinvolgente, il problema anche qui, a mio parere, sono i soliti cori inseriti a forza in un brano che ne avrebbe potuto fare tranquillamente a meno o perlomeno gli stessi avrebbero potuto essere meno invasivi, ma resta una canzone decisamente più intrigante di quella precedente, ed ecco che arriva il colpo gobbo con ‘Last call’, lo spirito dei Deep Purple aleggia su questo pezzo, che grazie anche a una interpretazione davvero sentita e permettetemi “coverdaliana” di Thomas, assesta un brano ben riuscito e ispirato, e se la successiva ‘Can’t get you out of my head’ ricorda di nuovo la storica band di Ian Paice, con il ritmato blues che ricorda da vicino ‘Black night’, ‘Dancing in the rain’ sposta decisamente il tiro verso una sentita ed emozionante ballad pianistica durante la quale si capisce che i nostri la sanno lunga e non si perdono in sinfonicismi fuori luogo, così tanto che il pezzo mi sembra fin troppo breve, chiude tutto il riff ipnotico e circolare di ‘See what you believe’, brano che striscia sinuoso verso la fine, ma che anche in questo caso mi lascia un senso di incompiuto, talmente scorre via veloce nei suoi quattro minuti scarsi.
Prima di archiviare questa disamina sul secondo album dei Social Disorder, mi soffermerei sulla fuorviante e sinceramente bruttina copertina, frutto dell’ennesima trovata dell’intelligenza artificiale, immagine creata da un software, quindi fredda, impersonale e come dicevo, decisamente ingannevole e più adatta a un album di power metal, sarebbe bastato chiedere a un buon disegnatore di ascoltare l’album e ricreare la cover in base alle sensazioni generate dall’ascolto, ma tant’è, speriamo solo che questa deriva non diventi una consuetudine…
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