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03 Luglio 2023 4 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Spv
Tracklist:
01 – The Gethsemane effect
02 – You’ll never see the sun again
03 – A song of possession
04 – The ritual of descent
05 – Spiritual warfare
06 – A song of possession
07 – Black earth & blood
08 – The passion of Dyonisius
09 – To bind & kill a God
10 - Unio mystica (the girl with the grave deep eyes)
11 - I will fear no man for I am a God
Formazione:
David DeFeis: Vocals, keyboards, bass, drums and orchestrations
Edward Pursino: 6-string guitars
Josh Block: 7-string guitar
Contatti:
http://www.virgin-steele.com/
https://www.facebook.com/VIRGINSTEELEOFFICIAL/
https://virginsteele.bandcamp.com/
Per me, parlare dei Virgin Steele è sempre difficile, nel bene e nel male, soprattutto da quando David DeFeis ha deciso che la band non esiste più, ma che sia diventata praticamente un suo progetto solista, con il fido Edward Pursino a fare da sparring partner e anche stavolta non riesco a fargliela passare , sono troppi i problemi di questo “The passion of Dyonisius”, diciottesimo album in studio (anche se i tre precedenti non sono propriamente degli album di inediti), come al solito incentrato su un concept ideato da David, il quale canta, suona basso, tastiere, anche la batteria e produce l’album, in pratica, escluse le parti di chitarra, fa tutto, ma come lo fa? Vediamo…
Innanzitutto, ci sono due piccoli passi avanti rispetto al precedente “Nocturnes of hellfire & damnation”, dove David riempiva i pezzi con un fastidiosissimo falsetto, cosa che in questo album fa molto meno, risultando così meno stucchevole e non c’è la drum machine, purtroppo però sono gli unici punti a favore , perché per il resto, al netto del fatto che le sessantun primavere si fanno sentire, David continua a riempire a dismisura le canzoni, persino sopra alle chitarre, le quali dal canto loro sono decisamente penalizzate in fase di mixaggio, restando in secondo piano rispetto alla voce e alle tastiere. In molti casi si sente anche l’aiuto del tremendo autotune, soprattutto in “The ritual of descent”, lunga, ossessiva e resa ancor più “faticosa” dai quasi tredici (!) minuti di durata, ecco, questo è un altro problema, la durata dell’album sfiora gli ottanta minuti per dieci canzoni e se si tiene conto che “Black earth & blood” dura poco meno di tre minuti, ci si trova di fronte a dei discreti mattoni da sopportare, resi ancora più pesanti dalle scelte sonore che penalizzano anche l’accoppiata iniziale composta da “The Gethsemane effect”, mid tempo con un discreto riff portante, che viene però seppellito dalle parti vocali al limite del sopportabile e “You’ll never see the sun again”, che ha un buon ritornello, ma i rallentamenti con annessi urletti senza senso sminuiscono il brano, e poi la batteria plasticosa, quasi finta, soprattutto nella conclusiva “I will fear no man for I am a God”, pezzo che perlomeno scorre abbastanza agevolmente, ma con le parti orchestrali e i vocalizzi a coprire tutto, insomma un vero e proprio disastro, soprattutto se si pensa ai magniloquenti dischi pubblicati almeno fino a “Invictus”. Emblematica della pochezza dell’album è “A song of possession”, che inizia con un tempo in doppia cassa e finisce ancora così dopo quasi sei minuti nei quali David fa di tutto per rendere l’ascolto ancora più noioso e dove le chitarre rimangono in secondo piano a fare quasi da comparsa, ecco, le chitarre, oltre a Josh block che usa una sette corde ma nessuno se ne accorge, che fine ha fatto Edward Pursino? Sì, proprio il protagonista di “I will come for you” o di “Weeping of the spirits”, ebbene se io fossi in lui mi sarei incazzato come una bestia nel momento in cui finivo di ascoltare il mixing definitivo, a parte il fatto che anche lui ci mette del suo a sciorinare assoli di una brevità disarmante, come in “Unio mystica (the girl with the grave deep eyes)”, ma l’effetto ‘Jason Newsted su …and justice for all’ è evidente ed è solo colpa delle scelte effettuate da David in fase di produzione. Si può salvare qualcosa dal naufragio annunciato? Forse il primo singolo “Spiritual warfare”, che al netto dei quasi otto minuti di durata e dei sibili irritanti inseriti un po’ dappertutto dal deus ex machina, almeno quando si intestardisce sui toni alti che oramai non raggiunge più, fluisce bene e da uno scossone alle mie stanche orecchie che erano abituate a ben altro quando si trattava dei Virgin Steele, ma quando anche nel pezzo più breve, ossia la già citata “Black earth & blood”, si fa fatica ad arrivare al termine, sempre a causa di suoni davvero pessimi, degli strepitii di David che vanno a coprire un cantato su registro più basso finalmente ispirato e dove addirittura non c’è un assolo, si capisce che da qui non ce la si fa ad uscirne e addirittura laddove come nella title track e in “To bind & kill a God”, le canzoni sembrano avere più carica, arriva l’infinita lunghezza a renderle davvero pesanti.
Mettiamoci il cuore in pace, David è davvero convinto che agendo così, la sua creatura possa risollevarsi da quell’abisso in cui lui stesso l’ha fatta precipitare , con il songwriting a senso unico oramai quasi (non tutto è da buttare, dai…) inaridito, con i suoi compagni ridotti a semplici mestieranti, con le sue manie di grandezza mostrate anche nelle sue tante foto che accompagnano il comunicato stampa, bisognerebbe rinchiuderlo in una stanza e fargli ascoltare la grandeur dei due “Marriage of heaven & hell”, l’epicità di “Noble savage”, la verve hard rock di “Age of consent”, la sfrontatezza di “Guardians of the flame”, la storicità di “Invictus” e dirgli, ecco, questi dischi li hai fatti tu con una band alle spalle, davvero vuoi continuare a fare scempi andando avanti per la tua strada, in solitaria, come se niente fosse? Purtroppo credo di conoscere già la risposta…
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