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Recensione

85/100

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The Cult – Under The Midnight Sun – Recensione

07 Ottobre 2022 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Rock
anno: 2022
etichetta: Black Hill Records

Tracklist:

01 - Mirror
02 - A Cut Inside
03 - Vendetta X
04 - Give Me Mercy
05 - Outer Heaven
06 - Knife Through Butterfly Heart
07 - Impermanence
08 - Under The Midnight Sun

Formazione:

Ian Astbury – Vocals
Billy Duffy – Lead Guitars
Damon Fox – Keyboards, Guitars
Grant Fitzpatrick – Bass
John Tempesta - Drums

 

Ritrovare i The Cult è un pò come ritrovare dei vecchi amici con i quali sei stato bene e hai condiviso dei bei momenti della tua vita e credo proprio di parlare per molti di voi che state leggendo queste righe e nonostante siate degli estimatori della branca più easy e leggera della musica rock, non penso che, almeno una volta nella vostra vita non abbiate canticchiato “Rain”, “Lil devil” o “Fire woman”, magari non ve ne vantate con gli altri, ma al fascino oscuro e al tempo stesso lascivo di queste canzoni, non si può resistere; ma perché sto rivangando nel passato della band di Ian Astbury e Billy Duffy? Semplice, perchè l’undicesimo album dei rockers inglesi va a riscoprire un po’ di quel misticismo che permeava i loro esordi, quando più che rivolgersi a Led Zeppelin e Ac/Dc, i The Cult si tuffavano nella darkwave, sia a livello compositivo, sia per l’immaginario, ma non temete se, al contrario di me, non vi interessa l’argomento, non siamo di fronte ad un album puramente nostalgico e neanche ad una riproposizione anacronistica di “Love” o addirittura “Dreamtime”, ma piuttosto ad una visione del soggetto 2.0, cosa della quale non posso che esser contento.

Pur nella sua breve durata, solo poco più di trentasette minuti, in “Under the midnight sun” ci sono molte atmosfere cangianti, molti espressioni musicali che quasi sembrano colorarsi a secondo del momento, cosa che i nostri hanno (quasi) sempre fatto, con risultati magari alterni, come il deludente album autointitolato del 1994, ma con altri decisamente più riusciti , ad esempio “Love”, “Electric”, “Sonic temple” o anche il penultimo “Hidden city”; l’apertura di “Mirror” sembra quasi una traghettata tranquilla verso lidi sicuri, senza che si alzi il vento e si increspino le onde, cosa che incomincia ad intravedersi nel secondo brano e anche secondo singolo pubblicato “A cut inside”, il cui video psichedelico che potete vedere in calce alla recensione, ben rappresenta un brano dall’incedere esaltante con atmosfere post rock ben incastrate nel telaio dark, il tutto con l’anima hard rock che oramai i The Cult esprimono fin dal 1987, anno della pubblicazione del già citato “Electric”, questa cosa si ripropone anche in “Vendetta X”, anche se in forma più semplice, in linea con certo rock gotico di più facile ascolto e da qui vorrei parlare del lavoro chitarristico di Billy Duffy, che, come al solito riesce a trovare quei giri vorticosi che lo caratterizzano a fronte anche di un assolo di gusto e non invadente, come in tutto l’album, cosa che depone a favore di un disco che, come già detto dura solo trentasette minuti, un po’ troppo poco per giustificare la spesa alla quale sia le case discografiche, che lo stato, leggi IVA, ci impongono, quindi siamo di fronte ad un album fatto di luci artistiche ed ombre di confezione? Sì, indubbiamente, ma qui si parla soprattutto di musica e qui, anche se non ce n’è molta, è di ottima qualità, come dimostra quello che è il primo singolo “Give me mercy”, azzardo uno dei più bei pezzi dei The Cult di sempre, un’esplosione di quel caleidoscopio di emozioni di cui parlavo all’inizio, con un’interpretazione di Ian sentitissima e il solito lavoro enorme di Billy, il tutto su una base che definire emozionante è riduttivo e, credetemi, non sto esagerando; si torna sulla terra, anche se a discrete altezze, con la cinematografica “Outer heaven”, che se non fosse per la coda un pò ripetitiva, avrebbe potuto far parte di una colonna sonora di un film hollywoodiano e con “Knife through butterfly heart”, che inizia soffusa per poi esplodere al calor bianco in crescendo teatrale, ma il punto più alto dell’album, a mio parere, lo raggiunge “Impermanence”, ossia come riproporre l’atmosfera postpunk della fine anni settanta/inizio anni ottanta, ai giorni nostri senza risultare vecchio e superato, ma con trasporto e drammaticità; se qualcuno di voi conosce i Joy Division e la voce del compianto Ian Curtis, non può non riscontare un approccio simile nelle parti vocali di Ian Astbury, il pathos raggiunto dai picchi emozionali di questo pezzo quasi commovente non è né comune, né facilmente eguagliabile da molte band attuali, una vera e propria intensificazione di trepidazione che esplode in tutta la sua magnificenza, mentre la chiusura è affidata alla title track, acustica orchestrale che Ian interpreta ancora in maniera magistrale e qui ci sta la piccola spiegazione del titolo sovvenuto allo stesso cantante, quando in occasione del Provinssirock in Finlandia, si trovò ad ammirare uno degli spettacoli più affascinanti del mondo, ossia il sole che non tramontava mai e si accorse dell’unicità e della magia del momento, decidendo di dedicare il titolo all’album e di trasportare quelle emozioni nel testo dell’eterea canzone.

Cos’altro si può dire dopo l’ennesima calata di emozioni che mi ha procurato un disco dei The Cult, ancora dopo quasi quarant’anni? Ben poco, credo proprio che il fluire delle parole che hanno composto di getto questo mio scritto, sia l’indicazione più emblematica di quanto la band inglese possa ancora regalare emozioni, il tutto senza scomodare chissà chi, senza sbrodolate tecniche, ma usando il cuore e l’anima e lasciando che le emozioni fluiscano senza dover per forza pensare al risultato finale non come a qualcosa che si deve fare, ma che si vuole fare, la cosa è ben diversa ed ora come ora sono in pochi a riuscirci e i The Cult ci sono riusciti ancora!

© 2022, Giorgio Barbieri. All rights reserved.

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