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Lugnet – Tales from the great beyond – Recensione

06 Settembre 2022 3 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2022
etichetta: Pride & Joy

Tracklist:

01 - Still a sinner
02 - In harvest time
03 - Another world
04 - Out of my system
05 - Svarv
06 - Eaten alive
07 - Pale design
08 - I can’t wait
09 - Black sails
10 - Tåsjö kyrkmarsch

Formazione:

Johan Fahlberg - Lead Vocals
Matti Norlin - Guitars
Micke Linder - Guitars
Lennart ”Z” Zethzon - Bass
Fredrik Jansson-Punkka - Drums

Ospiti:

"Dr." Carl Westholm - Keyboards on "Another world", "Pale design" e "Black sails"
Karolina Lif - Keyboards on "Tåsjö kyrkmarsch"

 

Chi è avvezzo a scorrazzare su queste righe, probabilmente è anche un ascoltatore di Rock of Ages, il programma condotto da Luca Tex e Stefano “Mr.Double Trouble” Grazio, in onda al lunedì sera sulla webradio Radio City Trieste, dove i due rockers di vecchia data propongono un pò tutto quello che intercorre tra l’aor nelle sue forme più light, fino alle nefandezze metallare, con puntate ,a volte, in territori anche più estremi ed è proprio durante una delle loro trasmissioni che ho scoperto, in colpevole ritardo, gli svedesi Lugnet, con il brano che apre “Tales from the great beyond”, secondo album della formazione fondata dal bassista Lennart ”Z” Zethzon e dal batterista Fredrik Jansson-Punkka, con un passato nei Count Raven, nei Witchcraft e attualmente anche percuotipelli per la leggenda della nwobhm Angel Witch ed è proprio questo il primo riferimento evidente che mi ha fatto innamorare di “Still a sinner”, da lì a farmi assegnare il promo dal deus ex machina Samuele, il passo è stato breve, anche perchè il brano è un evidente tuffo nell’Inghilterra dei primi anni ottanta, quando Saxon, Def Leppard, Iron Maiden, Tygers of Pan Tang, Raven, Holocaust e gli stessi Angel Witch stavano muovendo i loro primi gloriosi passi.

L’album si dipana su territori che sanno tanto di Deep Purple e Uriah Heep, ascoltatevi rispettivamente”In harvest time” e “Eaten alive” e ditemi se non ci sentite le due gloriose hard rock band inglesi, ma il leit motiv a mio parere, è sempre la nwobhm più sulfurea, ben incastonata sui territori settantiani di cui sopra, dai quali partono navi fantasma piene di nebbia e spettri come “Another world” e “Black sails”, figli illegittimi di Kevin Heybourne e soci, cresciuti poi qualche anno più tardi al cospetto di Leif Edling e dei monumentali Candlemass, ma tutto l’album scorre via con saette sicuramente retrò quali “Pale design”, il pezzo più ritmato e metallico assieme alla roboante apertura della già citata “Still a sinner” e “I can’t wait”, dove gli Spiritual Beggars sembrano rivivere finalmente, eppure il pezzo più dinamico e se vogliamo più easy, prendete questa definizione con un bel paio di pinze, è “Out of my system”, ottimo esempio di hard rock metallizzato e nello stesso tempo orecchiabile, che già dal titolo fa capire cosa ci stia raccontando l’ottimo Johan Fahlberg, che molti di voi conosceranno per essere il frontman dei Jaded Heart, con i quali ha registrato ben nove album e che qui si diletta in vocalizzi sicuramente meno melodici della sua band madre. A metà e alla fine ci sono due brevi strumentali, “Svarv” che sembra uscita da una festa medievale di marca più gaelica che scandinava e “Tåsjö kyrkmarsch” una marcetta condotta all’organo di stampo clericale, che poco ha a che fare con le atmosfere sulfuree dell’album.

Alcune altre cose vanno messe in luce, innanzitutto il solido lavoro della sezione ritmica, preciso e senza molti fronzoli, il che non deve necessariamente sembrare scarno, perchè è giusto così, altrimenti, per un genere come questo, anche la minima slappata o rullata “ad cazzum” sarebbe fuori posto, la coesione delle twin guitars che si alternano in assoli di ottimo gusto melodico e in ritmiche massicce, quindi la produzione e il missaggio, ad opera di Simon Johansson (Wolf, Memory Garden e Soilwork) e Mike Wead (King Diamond, Mercyful Fate, Hexenhaus e Memento Mori tra gli altri) la prima e di Marcus Jidell (Avatarium, The Doomsday Kingdom ed anche ex Evergrey e Royal Hunt) la seconda, senza evidenti aiutini in studio, con volumi equilibrati, senza trigger, editing e altre porcate che oramai tendono a far suonare molti gruppi alla stessa maniera, insomma, è un grande pregio iniziare ad ascoltare l’album e poter dire “questi sono i Lugnet”, ed infine lo stupendo artwork curato da Vance Kelly, uno che ha lavorato con Corrosion of Conformity e Down, tanto per citare i più conosciuti e per far capire in quali territori ci si trovi.
Davvero una piacevole sorpresa quella dei Lugnet, gruppo che probabilmente non farà sfracelli, ma che con la sua musica sanguigna, mi fa ben sperare che in futuro ci sia più attenzione all’attitudine, che non alle apparenze e che i rockers si ricordino di esserlo, magari curando di più la musica che la tecnica fine a sè stessa, staremo a vedere…

© 2022, Giorgio Barbieri. All rights reserved.

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