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01 Giugno 2021 16 Commenti Vittorio Mortara
genere: Alternative Rock
anno: 2021
etichetta: Icons Creating Evil
Tracklist:
1. New Frontier
2. The Law
3. Young Again
4. Satellite
5. Motherland
6. The Seventh Seal
7. Higher Ground
8. Cover My Traces
9. The Streets
10. Promise Of A Life
Formazione:
Ludwig Turner – Voce e chitarra
Marcus Johansson – Batteria
Soufian Ma’ Aoui – Basso
Lasciato colpevolmente sul fondo del calderone dei promo della redazione, vuoi perché eravamo tutti intenti ad aggiudicarci le recensioni dei grossi nomi, vuoi perché il precedente “The great divine” era un album bruttino, poco più di una scopiazzatura dei Foo Fighters con l’innesto di qualche coro orecchiabile, mi sono preso la briga di ascoltare il nuovo album dei Reach… e mi sono trovato fra le mani un mezzo capolavoro!
Prima di correre ad accaparrarvene una copia, aspettate un momento! Questo disco rappresenta senz’altro una svolta. Ma chi si aspettava che il trio svedese lasciasse dietro le scorie nu-metal e tirasse fuori un sound tipico scandinavo alla H.E.A.T. o Eclipse, visto che il loro manager è nientepopodimeno che Erik Gronwall, andrà incontro ad una cocente delusione.
Andiamo per ordine, dunque. In primo luogo Ludwig Turner si è reso conto che scimmiottare Dave Grohl non era più sufficiente. E quindi è andato a scuola di canto e, tra le altre cose, ha imparato ad usare il falsetto. Poi l’intera band ha aperto gli occhi su un panorama musicale più ampio, spingendosi verso altri generi ed esplorando anche un più vasto lasso temporale, andando ben più indietro degli anni 90. E la sezione ritmica costituita dal duo Johansson/Ma’ Aoui si è scoperta capace di fare cose assai più impegnative e divertenti che non portare avanti un 4/4 per l’intera durata di un album o di un concerto. Cosa non meno importante (nel 2021), la band si è costruita un look più moderno, trasformando il frontman in un “bello e dannato” potenzialmente in grado di rapire il cuore di più di una ragazzina ammiccando nei video promozionali. infine hanno introdotto nei testi tematiche tendenti al negativo, tanto care ad una buona fetta del pubblico più giovane.
Ne è scaturito un album estremamente attuale, dall’immenso potenziale commerciale, ricco di influenze colte ma anche leggiadramente pop, nell’accezione moderna dei termini. I nostri si sono allontanati tantissimo dai territori del melodic rock e sono pronto a scommettere che al 90% dei lettori di queste colonne non piacevano prima e ancor meno piaceranno adesso. Ma a me fanno impazzire!
La prima canzone, “New frontier”, si apre con forti influenze tex/mex, con tanto di fischio alla Morricone, per poi distendersi in un melodico refrain dalle reminiscenze irish folk e concedersi un intermezzo clamorosamente “Kashmir”… Insomma, un pastrocchione micidiale che però suona decisamente interessante e preannuncia un lavoro assolutamente imprevedibile. E infatti il singolo “The law” innesta il germe dei Nine Inch Nails sulla struttura di “Sweet dreams” degli Eurhytmics generando un ibrido che, se fosse stato spinto da una adeguata promozione, avrebbe sicuramente fatto capolino nelle classifiche di mezzo mondo! Tempo di riprendersi dalla sorpresa e “Young again” ci stupisce di nuovo con movenze da jukebox degli anni ’60, adeguatamente elettrificate, sulle quali Turner dimostra di essere stato a lezione da Prince e sfodera una interpretazione a tutto tondo, dal falsetto allo screaming, per un risultato che farebbe invidia persino al miglior Mika. Un riff zeppeliniano introduce “Satellite”, altra canzone dall’elevatissimo potenziale grazie alla prestazione maiuscola del frontman ed al ritornello confezionato a immagine e somiglianza dei mostri sacri Muse. Poi un violino pizzicato, seguito da un forsennato swing, innesca “Motherland”, brano dove la sezione ritmica può dimostrare tutto il suo valore e Ludwig cantare da navigato crooner! Bella, bella, bella!!! “The seventh seal” è un lento a tinte fosche dominato dai synth, estremamente pop, con quella tromba rauca che lo punteggia qua e la aumentandone il fascino. “Higher ground” è tra le mie preferite: base ritmica funky con Turner ancora sugli scudi, impeccabile nella strofa in falsetto, straordinario nel crescendo del refrain. Stacco centrale nu-metal. Tutto perfettamente amalgamato. “Cover my traces” la metterei senza alcuna esitazione nella colonna sonora di una serie tv poliziesca noir come “True detective”! Il suo passo felpato, la voce impostata ed il testo riguardante il pensiero di un piromane sarebbero perfettamente adeguati allo scopo! Molto più legata al recente passato della band “The streets” somiglia troppo ad una outtake di un qualsiasi album dei Foo Fighters per essere interessante. Ridendo e scherzando siamo già in chiusura: l’atmosfera horror di “Promise of life”, contaminata ancora dal pop rock moderno dei Muse, è la degna conclusione di un album riuscitissimo.
Temo che questa sarà l’ultima volta che un lavoro dei Reach verrà recensito su melodicrock, perché i nostri hanno fatto decisamente rotta su altri lidi. Giustamente, fra l’altro. Perché sono giovani ed hanno le potenzialità per spiccare il grande salto. Se riusciranno ad affinare ulteriormente il songwriting e, cosa fondamentale, verranno notati da una major, allora li rivedremo di certo nelle classifiche che contano. Altrimenti rischiano di perdere i (pochi) fan rocchettari senza conquistarne di “popolari” e finire nel dimenticatoio. Intanto io mi godo questo disco. Non so se consigliarvelo, perché, ripeto, siamo al di la dei confini della musica che piace a noi. Però, che diamine, se avete tanto osannato l’ultimo disco dei Coldpl… scusate, Levara, allora perché non prestare un orecchio anche a questo “The promise of a life” che è più vario ed originale? Dai che vi ho sorpresi mentre canticchiavate “Why ahy ahy ahy, why you wanna run…”!!!
Buon ascolto
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