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Recensione

70/100

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Rob Moratti – Paragon – recensione

25 Settembre 2020 9 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR
anno: 2020
etichetta: AOR Heaven

Formazione:

Voce: Rob Moratti
Chitarra: Torben Enevoldsen, Ian Crichton, Joel Hoekstra, Ulrich Lonqvist
Tastiere: Pete Alpenborg
Basso: Tony Franklin, Ken Sandin
Batteria: Stu Reid, Felix Borg

 

Rob Moratti non è certo l’ultimo arrivato sulla scena. Basti ricordare i trascorsi del cantante italo canadese come solista, nonché nei Saga e nei Final Frontier.
Sul suo nuovo album non c’è traccia del Pomp/Prog dei saga, né la vena epica dei Final Frontier.
Paragon riprende, piuttosto, l’AOR classico ascoltato sui suoi lavori solisti, raffinandolo ulteriormente e smussandone ogni spigolosità e ricalcando gli stilemi classici del genere. Qui troverete un mix perfetto di chitarre, ariose tastiere, una sezione ritmica inappuntabile ed una produzione scintillante portata a termine dallo stesso Rob in collaborazione con Torbe Enevoldsen per il mixaggio.

A dargli una mano nella realizzazione dell’album troviamo nomi conosciuti come l’ex compagno nei Saga, Ian Chrichton, la chitarra solista di Joel Hoekstra (Whitesnake, Night Ranger), il bassista Tony Franklin, che in passato ha prestato la sua opera ad una miriade di bands ed artisti (compreso il nostro Vasco), più una manciata di musicisti e compositori della scena melodica scandinava.
Insomma, ci sono tutte le premesse perché questo nuovo lavoro concorra ad essere uno dei migliori dell’anno.
E’ così, vi chiederete? Purtroppo no. Quello che non convince chi scrive è proprio la voce di Rob, ovvero l’uso che ne fa. Il cantante spesso indugia un po’ troppo sui toni alti, rendendo le melodie meno godibili e perdendo in espressività interpretativa. Un simile uso dei vocalizzi acuti sarebbe più indicato su un hard rock più sporco, stile primi Steelheart o Slaughter… Sulle melodie patinate e iperprodotte di Paragon, invece, finiscono per rendere l’insieme un tantino monotono e per privare i refrain del necessario impatto emozionale.
Veniamo alle canzoni. L’opener “I’m falling” parte quasi come un pezzo class metal e sfocia in un coro anthemico dove la voce di Moratti arriva su toni altissimi e poi cede il passo ad un assolo azzeccato. Si prosegue con “Rise above”, un mid tempo dal cantato sornione ma poco incisivo. “What have we become” sembra uscita dal repertorio Journey/Bad English, costruita a meraviglia, con un bel ritornello seguito da uno scintillante assolo. Un riff classico che più classico non si può introduce “Remember”, canzone dal flavour tardo ottanti ano, dalla struttura canonica ma di sicuro effetto, con la solista a punteggiare qua e la la partitura. Ed arriviamo a “Where do we go from here”, la preferita di chi vi parla. Una semi ballad che sembra uscita dalla penna di Diane Warren nel periodo d’oro e che potrebbe entrare perfettamente nel repertorio dei migliori Crown of Thorns per quanto la voce di Rob si avvicina a quella del mohicano Jean Beauvoir! Un tappeto di tastiere doppiate da un riff tanto semplice quanto efficace, con il chorus che ti rimane subito in mente e il bellissimo solo di chitarra perfettamente incastonato nel pezzo. Molto piacevole anche la seguente “Drifting away” che parte da un pomposo riff di tastiere per poi andare in crescendo fino al ritornello, classico come non mai. Una breve intro di piano caratterizza “Break the chains” per poi lasciare il passo ad un tipico riffone, una bella strofa, ma un bridge e un chorus un po’ deludenti. Vi piacciono i Danger Danger dell’omonimo debutto? Allora ascoltatevi “Alone anymore”, perché qui si respirano a pieni polmoni, dalla prima all’ultima nota, con Moratti che fa il verso a Poley per poi salire ancora una volta, altissimo. Piuttosto anonima la seguente “Bullet proof alibi”, mentre la successiva “All I’m living for” con il suo bell’arpeggio iniziale ed un bel pre chorus, finisce un po’ per deludere perché non riesce ad essere efficace nel finale di quest’ultimo. Scontata nel riff e con una linea melodica non molto azzeccata, “Picking up the pieces” lascia la chiusura a “Stay away” dal riff deciso, ma che, ancora una volta, finisce il non lasciare il segno.

Cosa dire di questo “Paragon”? Sicuramente un disco suonato bene e prodotto meglio. Quattro o cinque canzoni sono veramente molto valide. Con una migliore gestione delle linee vocali e tre quattro filler in meno sicuramente sarebbe entrato di diritto nel novero delle uscite più interessanti di quest’anno.
Da ascoltare.

© 2020, Vittorio Mortara. All rights reserved.

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