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Recensione

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Dirty Shirley – Dirty Shirley – recensione

09 Marzo 2020 11 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2020
etichetta:

Tracklist:


1. Here Comes The King
2. Dirty Blues
3. I Disappear
4. The Dying
5. Last Man Standing
6. Siren Song
7. The Voice Of A Soul
8. Cold
9. Escalator
10. Higher
11. Grand Master

Formazione:

Dino Jelusic - Vocals
George Lynch - Guitar
Trevor Roxx – Bass
Will Hunt - Drums

Contatti:

https://www.facebook.com/DirtyShirleyRock/

 

Arrivano i Dirty Shirley, un nuovo super gruppo direttamente dagli Stati Uniti, una sorta di mostro di Frankenstein musicale, formato da Dino Jelusic, George Lynch, Trevor Roxx e Will Hunt, tutti musicisti dalla fama indiscussa e decennale.
Partenza di grande livello con “Here Comes The King”, che da subito mette in luce le peculiarità tecniche e stilistiche dei vari componenti della formazione: in questo caso a colpire è la voce di Jelusic, che ricorda moltissimo alcuni dei grandi interpreti dell’hard rock mondiale.

“Dirty Shirley, Dirty Blues”, una sorta di title track, non spinge a dovere, risultando però nel complesso molto gradevole e con qualche spunto tecnico di risalto. C’è qualcosa nella parte vocale che risulta quanto meno “già sentita”, che rende complessivamente “I Disappear” un brano poco fresco, nonostante un ottimo lavoro ritmico di basso e batteria e un fraseggio chitarristico cupo e spietato. “The Dying” è istrionico e particolare, dal pregevole inserto di chitarra classica alla trama vocale suadente, si perde senza grandi intoppi nella successiva e ben più pompata “Last Man Standing”, pezzone hard rock classico senza infamia né gloria. “Siren Song” è da ammirare per la scelta isterica e folle dei suoni e della ritmica, forsennata a tratti, aperta in altre situazioni, che la rendono molto godibile e tutto sommato originale. Arriva il momento del (lungo) lento “The Voice Of A Soul”, intenso e canonico, che, al di fuori di un’ottima resa strumentale, lascia poco in termini di freschezza al cuore e alle orecchie dell’ascoltatore. “Cold” è truce, oscuro, perfido, nella sua ritmica chiusa e tagliente, che si risolve in un ritornello tambureggiante e titanico. Ritorniamo al “classico” con “Escalator”, rigoroso e poco frizzante, che ci conduce all’onirica “Higher”, dove Lynch si sbizzarrisce in numerosi fraseggi e ritmiche di livello. La conclusione dell’album è affidata all’orientaleggiante “Grand Master”, tribale e ossessiva, che ci consegna un lavoro schizofrenico, dalla realizzazione di altissimo livello tecnico, ma controbilanciata da una mancanza, forse ormai cronica, di spinta e freschezza in alcuni momenti.

© 2020, Alberto Rozza. All rights reserved.

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