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Trench Dogs – Year Of The Dog – Recensione

03 Dicembre 2018 3 Commenti Stefano Gottardi

genere: Glam Rock/ Sleaze Rock 'n' Roll
anno: 2018
etichetta: Autoproduzione

Tracklist:

1. Homesick Parade
2. Montenegro
3. Forgotten Melodies
4. Rattlin’ Bones
5. Awake
6. Bad Luck Berlin
7. Leather And Flowers
8. The Gin Beat
9. Fistful Of Problems
10. Kids!
11. Buzzards

Formazione:

Andy Hekkandi - Voce
Mattias Johansson - Chitarra Solista
Howard "Spides" Chapman - Chitarra Ritmica
Daniel Ekholm - Basso
Martin “Martini” Andersson - Batteria

Contatti:

https://www.facebook.com/trenchdogs

 

I Trench Dogs si formano nel 2013, dopo un’impegnativa sessione di “heavy drinking” in un pub nel sud di Stoccolma, Svezia. Condividono la passione per il rock and roll e per band come The Heartbreakers, Hanoi Rocks, The New York Dolls e The Dammed. La line-up cambia alcune volte prima di stabilizzarsi e oggi è composta da tre svedesi (Mattias Johansson, chitarra solista, Daniel Ekholm, basso e Martin “Martini” Andersson, batteria), un inglese (Howard “Spides” Chapman, chitarra ritmica) e un australiano (Andy Hekkandi, voce). Dopo un EP, Fashionably Late del 2015, ed un singolo, Wine Stained Eyes dell’anno successivo, arriva il debut album Year Of The Dog, tributo all’astrologia cinese secondo la quale quello in corso è proprio “l’anno del cane”. Il CD è un classico jewel case con anacronistico tray nero, forse a voler sottolineare la natura volutamente old school del progetto. Analizzando il booklet è apprezzabile notare che i testi non siano infarciti di cavolate e luoghi comuni tipici del genere, ma piuttosto sembrino raccontare esperienze di vita vissuta, spesso in modo romantico e a volte persin poetico. Probabilmente avere un cantante madrelingua aiuta non poco in questo senso. Stilisticamente, come evidente dalla foto di copertina, il quintetto scandinavo omaggia certo rock di stampo sleaze Ottantiano. La loro musica è infatti riconducibile a quella di artisti come Faster Pussycat, Hanoi Rocks, Vain, Dogs D’Amour, Jetboy, Quireboys, con qualche richiamo al glam rock della precedente decade di T. Rex e Sweet.

Tutto, dalle atmosfere alla registrazione, è chiaramente ispirato dagli anni d’oro di queste sonorità. Il livello qualitativo del songwriting è medio-alto e alquanto omogeneo, di veri e propri filler per fortuna non ce ne sono, anche se si denota un leggero calo nella seconda parte della tracklist. Qualche composizione però si fa notare in modo particolare: ad esempio la scanzonata opener “Homesick Parade”, rock and roll scuotichiappe a cui è impossibile resistere; la più malinconica “Montenegro”, affascinante e retrò; la pimpante “Forgotten Melodies”, Hanoi Rocks fino al midollo nella strofa ma con un ritornello da dieci e lode; la quadrata “Rattlin’ Bones”, con un irresistibile vibe rnr anni Cinquanta/Sessanta mischiato ad echi Faster Pussycat. E ancora la coppia “Awake” / “Bad Luck Berlin” che parrebbe concettualmente legata dal medesimo argomento, con la prima che cavalca l’onda del brano precedente e la seconda che in certi frangenti riporta alla mente i D-A-D del periodo No Fuel Left For The Pilgrims (ed in altri è con molta probabilità la canzone più heavy del lotto). Un’altra fuoriclasse è “The Gin Beat”, primo singolo e video estratto mesi fa, e classica born to lose song immancabile su questo tipo di dischi (non è l’unica, peraltro). Forse come detto l’attenzione cala un po’ nel finale, con un paio di pezzi leggermente sottotono, cosa abbastanza fisiologica del resto, ma in definitiva Year Of The Dog è un lavoro solido, compatto e ben realizzato da un gruppo che suona sì del tutto fuori dal tempo, ma lo fa davvero bene.

IN CONCLUSIONE

Chiudo con un piccolo appunto: ho scritto varie volte ai ragazzi per poter fare questa recensione, non ricevendo mai risposta. Forse le mie mail non gli arrivavano, di sicuro gli è arrivata quella con cui ho poi acquistato il CD. Non è un problema, ho comprato e compro ancora buona parte dei prodotti che recensisco, ma l’invio degli MP3 agli addetti ai lavori è un’operazione veloce e del tutto gratuita. Resto quindi un po’ stupito che una band che sceglie la via dell’autoproduzione, senza una casa discografica alle spalle e senza poter usufruire dei servizi di un ufficio stampa professionale, decida di non rispondere alla proposta di recensione di un giornalista. Facendo un rapido giro in rete al momento di consegnare il mio articolo, non mi sorprende non trovare nessuna recensione che li riguardi e questo è grave per un gruppo emergente: nell’era della tecnologia, si tratta ancora della forma di pubblicità a più basso costo che esista e andrebbe sfruttata in maniera più intelligente. Tengo a precisare che questo episodio non ha minimamente influito sul mio giudizio verso il loro album, ma mi sembrava giusto riportarlo.

© 2018, Stefano Gottardi. All rights reserved.

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