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Recensione

75/100

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Nazareth – Tattooed On My Brain – recensione

05 Novembre 2018 2 Commenti Stefano Gottardi

genere: Hard Rock
anno: 2018
etichetta: Frontiers Records

Tracklist:

1. Never Dance With The Devil
2. Tattooed On My Brain
3. State Of Emergency
4. Rubik’s Romance
5. Pole To Pole
6. Push
7. The Secret Is Out
8. Don’t Throw Your Love Away
9. Crazy Molly
10. Silent Symphony
11. What Goes Around
12. Change
13. You Call Me

Formazione:

Carl Sentance – Voce
Jimmy Murrison – Chitarra
Pete Agnew – Basso
Lee Agnew – Batteria

Contatti:

http://www.nazarethdirect.co.uk/website
https://www.facebook.com/nazarethofficial/

 

“The Weight” è una canzone del 1968 del gruppo canadese The Band: è da un verso di questo testo che nello stesso anno la cover band di dopolavoristi The Shadettes prende il nome Nazareth e inizia il cammino che le permetterà di segnare in qualche modo la storia del rock. Quarantasette anni dopo l’omonimo debut del 1971, sul finire del 2018 esce il loro ventiquattresimo album, intitolato Tattooed On My Brain. Sfogliando le 20 pagine del booklet ci si rende subito conto di come, per vari motivi, non sia il solito platter del combo scozzese. Il più eclatante è la mancanza della voce storica, quel Dan Mc Cafferty che, con una timbrica unica e riconoscibile fra mille, aveva marchiato a fuoco ogni uscita discografica precedente. L’assenza del carismatico singer non è di certo una notizia inattesa: seriamente malato, nel 2013 aveva abbandonato il gruppo da lui stesso fondato assieme al bassista Pete Agnew, ad oggi l’unico membro originale rimasto. Sebbene la band avesse trovato nel giovane Linton Osborne un rimpiazzo per proseguire la propria attività concertistica, Rock’n’Roll Telephone del 2014 vedeva ancora il nome di Mc Cafferty in bella evidenza nei crediti alla voce… voce!

Pur essendo l’epitaffio artistico del cantante di sempre, e pur avendo i suoi momenti, il disco difficilmente verrà ricordato come uno dei più riusciti della carriera dei Nazareth. Consapevoli di questo, si rendono conto che l’uomo giusto per prendere posizione dietro al microfono e raccogliere la pesante eredità di Dan non è Osborne, bensì Carl Sentance, un vocalist più maturo e dalla comprovata esperienza (Persian Risk, Krokus, Geezer Butler Band, Don Airey e Crossbones sono solo alcune delle collaborazioni presenti nel suo curriculum). Trovato un certo affiatamento dal vivo, il quartetto, completato dal chitarrista Jimmy Murrison (dentro dal 1994) e dal batterista Lee Agnew (figlio di Pete e in formazione dal 1999), si è chiuso ancora una volta in studio di registrazione per dare vita a questo nuovo lavoro. Così lo presentava Pete qualche mese fa: “Ciò che mi aspetto è che questo disco, per via della nuova line-up, verrà sottoposto al più severo giudizio dei fan più di qualsiasi altro capitolo della storia dei Nazareth. Spero però che alla fine venga considerato una delle migliori uscite della nostra carriera. Ci sono ovviamente tracce con il classico Nazareth sound, ma ad essere fresco e ispirato, nei nuovi brani e nell’approccio, è il fatto che abbiamo un nuovo cantante. Puoi cambiare i componenti della band e continuare sulla stessa strada, ma non c’è nulla che cambi l’orientamento di un gruppo in maniera così netta come un nuovo frontman. Questo, infatti, influenza anche il modo in cui i ragazzi scrivono le canzoni. E con Carl Sentance non abbiamo solo un nuovo singer, ma anche un nuovo grande songwriter!”. Sgomberiamo subito il campo da equivoci: dei vecchi Nazareth qui c’è poco. Non potrebbe essere altrimenti, con un solo membro storico a bordo e con una nuova figura a reggere la penna fra le dita che firma ben cinque composizioni. Lo aveva mostrato mesi fa il primo singolo “Pole To Pole”, hard boogie con le vocals meno spigolose di Sentance a tracciare un solco netto con il passato, caratterizzato dalla tagliente ruvidezza del timbro del suo predecessore. Il nuovo corso degli scozzesi, se così possiamo definirlo, non cede però mai alla tentazione di allontanarsi dai binari dell’hard rock, limitando gli “esperimenti” a qualche puntata nel blues (“Push”, “Silent Symphony”, “You Call Me”) o nel punk rock (la title track), tanto per rendere un po’ varia la proposta. Ci troviamo quindi di fronte ad un album che, pur non rinnegando mai il passato, suona per forza di cose diverso, il che non è necessariamente un male. Il disco, infatti, è valido e anche senza far gridare al miracolo può garantire svariati passaggi nello stereo e momenti di puro godimento (a patto di riuscire a non fossilizzarsi sull’idea che non suoni così smaccatamente Nazareth). I pezzi su cui battere il piedino ci sono (“Never Dance With The Devil”, “State Of Emergency”, “Rubik’s Romance”, “The Secret Is Out”, “What Goes Around”, “Change”), e in fondo il rock and roll è fatto per questo.

IN CONCLUSIONE

Ventiquattressimo tassello della discografia dei Nazareth, Tattooed On My Brain potrà anche far storcere il naso ai fan più ortodossi della band scozzese per il cambio di vocalist, ma guardando oltre a questo pur rilevante particolare, si tratta di un CD che merita l’ascolto e che festeggia degnamente i cinquant’anni di carriera.

© 2018, Stefano Gottardi. All rights reserved.

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