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Recensione

73/100

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Michael Monroe – Blackout States – recensione

07 Novembre 2015 4 Commenti Matteo Trevisini

genere: Sleaze/Rock 'n' roll
anno: 2015
etichetta: Spinefarm Records

Tracklist:

01. This Ain‘t No Love Song
02. Old King‘s Road
03. Goin’ Down With The Ship
04. Keep Your Eye On You
05. The Bastard’s Bash
06. Good Old Bad Days
07. R.L.F.
08. Blackout States
09. Under The Northern Lights
10. Permanent Youth
11. Dead Hearts On Denmark Street
12. Six Feet In The Ground
13. Walk Away

Formazione:

Michael Monroe – voce
Sami Yaffa – basso
Steve Conte – chitarra
Rich Jones – chitarra
Karl Rockfist – batteria

 

Metto vigliaccamente le mani avanti e chiedo umilmente scusa a chi si sentirà offeso ma non mi va proprio di seguire il gregge che ha coperto d’incenso il nuovo lavoro di Matti Antero Kristian Fagerholm, classe 62, conosciuto anche su Uranio con il nome d’arte di Michael Monroe, vera colonna portante ed icona del rock ‘n roll più sanguigno e stradaiolo.
Attenzione però… questo non vuol dire che Blackout States sia un brutto disco, anzi! (ce ne fossero di dischi cosi !!!) solamente che rimarrà soltanto un buon disco e tra un paio d’anni, quando avrete voglia di ascoltare la voce sguaiata di una delle ultime icone rimaste nel music biz andrete a mettere le mani nella vostra collezione e pescherete altre meraviglie (…lasciando in pace il mito sin troppo facile marchiato Hanoi Rocks…) come i Demolition 23 o Not Fakin’it o il più recente Sensory Overdrive… quindi non ci sono bocciature… figuriamoci, ma nemmeno voti che rasentano la lode con bacio accademico.

Andiamo con calma, che di carne sul fuoco ce n’è in abbondanza… Dopo essere tornato in pompa magna nel 2011 pubblicando il meraviglioso Sensory Overdrive grazie alla momentanea ma efficace partnership con quel genio di Ginger questo Blackout States è il terzo capitolo in quattro anni ed è il naturale seguito di Horns And Halos del 2013. Sempre al suo fianco il fido Sam Yaffa al basso e Steve Conte alla chitarra, Rich James dei The Black Halos prende il posto che fu di Dregen mentre al drum kit rimane saldo sullo sgabello Karl “Rockfist” (ex Danzig).

Il disco parte con una granata fatta esplodere in piena faccia a tutti quanti senza nessuna timidezza perché è di questo che parliamo ascoltando la splendida This Ain‘t No Love Song, un punk che cauterizza sulla pelle per la milionesima volta il teorema fondante della musica che più amiamo… sex, drugs and rock n roll…e che altro ???
Segue il primo singolo Old King‘s Road che tiene ancora alta la temperatura se non per originalità almeno per energia anche se ronza nel cervello quella strana sensazione di deja vù… ma questa l’ha già pubblicata anni fa o no ??? boh…
Di qualità assoluta invece è Goin’ Down With The Ship che ha dalla sua un ritornello torcibudella da cantare in coro saltando sui tavoli dei peggiori bar di Caracas.
Uno dei picchi dell’album è la dolce melodia che regala Keep Your Eye On You con un arrangiamento fantastico che evidenzia le qualità interpretative della voce di Michael che non dà segni di cedimento alcuno, nonostante gli anni che passano inesorabili.
La band schiaccia di nuovo il pedale dell’acceleratore con The Bastard’s Bash… si vede che l’affiatamento tra i musicisti rende tutto più semplice e coinvolgente.
Bello sarebbe che i tempi aurei tornassero insieme alla gioventù è il messaggio dell’evocativa Good Old Bad Days, un bel rock’n roll anni ’50 accelerato a dovere dove, alla fine, il buon Michael lucida il suo sax per rendere la song ancora più sbarazzina. Sicuramente la grintosa ma banale R.L.F. non verrà ricordata come il punto più alto del disco con il suo coro da stadio ripetuto all’infinito “Rock Like Fuck, Rock Like Fuck, Fuck Shit Up, and Rock Like Fuck”…per fortuna dura poco.
La title track risolleva un poco la media… Blackout States infatti è una tipica canzone che il nostro biondo lungocrinito ha già scritto mille volte… bello il lavoro di Steve Conte alle chitarre. Decisamente meglio la splendida Under The Northern Lights che ha dalla sua una grande melodia che parte lenta per poi esplodere nel tipico stile punk’n roll… curiosità non di poco conto: la canzone venne scritta addirittura negli anni novanta da Dee Dee Ramone per poi essere riadattata e personalizzata per questo disco!
Ancora autobiografica Permanent Youth dove Michael canta con una vena malinconica “growing older gracefully, no it ain’t the thing for me…I remain in my permanent youth”.
Grido di dolore in Dead Hearts On Denmark Street dove Michael spezza una lancia a favore dell’omonima via di Londra, il cuore della storia del rock’n roll della capitale inglese destinata come tanti luoghi “sacri” dei dintorni ( il mitico Astoria e l’Intrepid Fox giusto per
fare due nomi) a sparire inghiottiti dalla speculazione edilizia che vuole portare solo negozi e appartamenti di lusso nel centro storico londinese.
Si muove ancora il piedino con Six Feet In The Ground gran pezzo con un ritornello non sicuramente originale ma d’effetto! Finale con un altro punk da barricata come Walk Away che da il colpo di grazia alle residue forze rimaste.

IN CONCLUSIONE

Perché cercare nuove soluzioni stilistiche e voli pindarici inutili quando quello che fai da una vita è il tuo marchio di fabbrica e lo sai fare ancora maledettamente bene???
Magari non farai gridare al miracolo ma farai venire un bel sorriso sulla faccia dei tuoi fans e li farai felici per tre quarti d’ora con del sano e vecchio rock’n roll… tutto qua!
Michael riunisce in quest’album tutti i suoi personalissimi ingredienti mescolandoli sempre alla stessa maniera e sfornando cosi un lavoro che si lascia ascoltare grazie anche ad una produzione secca e pimpante, quasi live, che da ancora più impatto ai pezzi e alle melodie allegre e vivaci. Se una canzone vi ricorda un’altra scritta da Michael non preoccupatevi alla fine è solo rock’n roll e a noi ci piace, se non tutto buona parte!

© 2015 – 2018, Matteo Trevisini. All rights reserved.

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