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Recensione

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Red Dragon Cartel – Red Dragon Cartel – Recensione

23 Gennaio 2014 10 Commenti Alessio Minoia

genere: Hard Rock
anno: 2014
etichetta: Frontiers Music

Tracklist:

1. Deceived
2. Shout It Out
3. Feeder (featuring Robin Zander of Cheap Trick)
4. Fall From The Sky
5. Wasted (With Paul DiAnno)
6. Slave
7. Big Mouth (featuring Maria Brink of In This Moment)
8. War Machine
9. Redeem Me (with Sass Jordan)
10. Exquisite Tenderness

Formazione:

Darren James Smith - Voce
Jake E. Lee - Chitarra
Ronnie Mancuo - Basso
Jonas Fairley - Batteria

 

Avete presente quando ci si trova davanti ad un bivio che sapevate dall’inizio di andare ad affrontare? Che ne so, tipo di Cast Away del due volte premio oscar Tom Hanks. Un incrocio di quattro strade tra cui scegliere, tutte proponibili, tutte percorribili, tutte perfettamente identiche. Ecco, quando il vostro umile scribacchino si è trovato a decidere se alzare la mano e reclamare questo album oppure far finta di niente e continuare a sognare succinte porcellone dai facili costumi purtroppo/per fortuna ha prevalso l’eccesso di zelo, il killer instinct da navigato junkie musicale ad alto voltaggio.
Red Dragon Cartel è il monicker sotto il quale si cela il genio chitarristico di Jakey Lou Williams, per tutti Jake E. Lee.  Stiamo parlando di una personcina che ha legato il suo songwriting nei mid-eighties sia nel ritorno del madman Ozzy Osbourne in due album sottovalutati come Bark At The Moon e, soprattutto, The Ultimate Sin (andatevelo a riscoprire infedeli!).

L’apice creativo giungerà più tardi con i Badlands sull’onda di tre album eccelsi marchiati a fuoco da una miscela tellurica a base di hard blues torrenziale, tecnica invidiabile e La Voce mai troppo rimpianta di Ray Gillen. Dopo di questo pressoché l’oblio tra progetti abortiti, album fantasma, sporadiche apparizioni in dischi tributo ma niente ciccia, fino a questo full-lenght.

Ed esattamente in questo punto mi blocco inebetito perchè non so cosa scrivere: sperticare elogi e ammirazione di fronte ad un suono di chitarra che non conosce i segni del tempo, ad un trademark inconfonbile che ritrovi inalterato dalla prima pennata, amalgamando però anche venature nu-metal e sprazzi di striature dark una volta inesistenti oppure riversare la propria frustrazione di amante tradito per una tracklist discontinua e tartagliante, quasi sempre personale ma fondamentalmente incapace di dare all’ intero platter una direzione, un soffio di vento per liberarsi in volo verso il Valhalla.
Forse proprio in questo approccio sta il masticare amaro di chi scrive, l’ impressione dopo dieci giorni di ascolti in loop è quella di un esordio assemblato nel tempo, figlio di diverse influenze, diverse correnti nessuna delle quali predominanti, a volte abbozzate senza la necessaria convinzione presumibilmente per battere strade diverse in attesa che il mercato discografico (o meglio ciò che ne resta) si pronunci su quale di queste sarebbe meglio insistere.
O forse ancora stiamo solamente parlando di evoluzione, di cambiare pur rimanendo sè stessi lasciando inalterate soluzioni storiche che caratterizzano l’essenza di questo musicista senza però dare l’ impressione di un un déjà-vu senza futuro, di un born dead.

Chi scrive non ha ancora trovato la chiave di volta per decantare questo omonimo esordio discografico pertanto prende nota pedissequamente delle scosse telluriche di Deceived e Reedem Me figlie bastarde della Los Angeles che fu, delle tonalità post-grunge di Slave e Wasted (ospite Paul Di’Anno) degne di un follow-up a firma Alice in Chains, del quasi doom-rock di War Machine, del calderone sonoro di Big Mouth e Shout It Out, di una Feeder (featuring Mr. Robin Zander) capace di ricordarci la grandezza del nostro genere di musica preferito e, dulcis in fundo, del capolavoro. Fall From The Sky è una power ballad con i controcazzi:  zen nell’incedere, zeppelin nell’impasto, dal refrain spacca chiappette e con solo che andrebbe utilizzato in ogni reparto di rianimazione tanto è il pathos, il feeling ed il gusto sciorinato a piene mani.

Termino il mio excursus evidenziando una produzione “dusty and roll” by Ronnie Mancuso, l’ottima ugola di un singer come Darren James Smith capace di destreggiarsi egregiamente tra vari approcci musicali, una copertina essenziale eppur accattivante e un plauso (once again) all’ ammirabile lavoro della nostrana Frontiers per averci permesso di riassaporare la chitarra di Jake E. Lee.

IN CONCLUSIONE

E’ il ritrovare un vecchio amico che credevamo oramai perso tra le pagine del tempo e constatare che rughe, frustrazioni e promesse non mantenute non hanno intaccato la passione e il sacro fuoco, diversi up and down tra le dieci tracce di questo esordio sicuramente da ascoltare. Ma ora vogliamo il capolavoro!

© 2014 – 2018, Alessio Minoia. All rights reserved.

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