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13 Settembre 2011 9 Commenti Andrea Vizzari
genere: Melodic Rock
anno: 2011
etichetta: Frontiers
Tracklist:
01. This Is The Moment
02. Strong Enough
03. How To Stop
04. Let Go
05. One Day I'll Stop Loving You
06. I Should Have Said
07. If It's To Be (It's Up To Me)
08. Just Say Goodbye
09. Summer Nights In Cabo
10. Tear Down The Baricades
11. A Different Drum
12. Mecury's Down
Formazione:
Toby Hitchcock - Voce
Erik Martensson - Tutti gli strumenti
Ed è arrivato anche il momento per Toby Hitchcock di dare alla luce il suo “personale” album solista, ma procediamo con ordine. Il singer americano, scoperto e portato alla ribalta da Jim Peterik per il suo attuale progetto musicale che prende il nome di Pride Of Lions (tre album all’attivo e il quarto in lavorazione), ha subito fatto breccia nel cuore di tutti gli appassionati di aor grazie alle sue prestazioni vocali incredibili. D’altronde, se l’ex Survivor ha scelto proprio questo giovane come cantante della band dopo aver lavorato con gente come Jimi Jamison (un nome su tutti) allora le doti di Hitchcock non dovrebbero essere messe in discussione. Per la Frontiers, proprio in attesa del quarto album dei Pride Of Lions, era giunto il momento che Toby pensasse ad un lavoro solista, un lavoro di puro melodic rock su cui ricamare e plasmare la sua voce. Di solista invece c’è da dire che c’è ben poco in quanto sempre alla Frontiers hanno pensato bene di sfruttare la nuova gallina dalle uova d’oro, un giovane che negli ultimi anni (nonostante sia nel giro da un bel po’ con i suoi Eclipse) sta avendo molto successo come songwriter, produttore e musicista e che risponde al nome di Erik Martensson. Dopo i successi con i W.E.T. ecco che a Martensson è stato affidato il compito di scrivere e arrangiare i pezzi di questo Mercury’s Down, orchestrando e producendo l’intero disco e perfino suonando tutti gli strumenti, lasciando ad Hitchcock il compito delle linee vocali principali. Per chi si aspettava un sound “Pride Of Lions” è meglio che fin da subito cominci a togliersi dalla testa le dolci estive melodie di Peterik perchè in questo disco a farla da padrone sono chitarre “pesanti” e corpose che navigano su una sezione ritmica fin troppo solida. Scelta vincente o troppo esagerata? Vediamolo insieme…
LE CANZONI
Arpeggio in clean culminante in un acuto di Toby ed ecco che parte il primo singolo dell’album di cui è stato tratto pure un videoclip (visualizzabile a fine recensione) dal titolo This Is The Moment. Buona la melodia di base nonostante fin dalle prime note il senso di deja vu assale la mente fino al break strumentale in crescendo post assolo in cui si sentono reminiscenze W.E.T. Strong Enough inizia con un riffing serrato e deciso che però si conclude in un ritornello melodico tutto da cantare a squarciagola con una grandissima prova vocale di Toby. Molta presenza dei cori, anch’essi opera di mister Martensson. How To Stop parte quasi in sordina, lenta e delicata ma è solo un fugace momento prima del velocizzarsi delle strofe e del grandioso ritornello ancora una volta ornato da grandi cori. Tutto nella norma se non fosse che questo ritornello è pressochè identito a quello di “If I Fall” dei WET dello stesso Martensson (progressione musicale, cori a risposta della linea vocale principale). Neanche il tempo di realizzare l’incredibile riciclatura che arriviamo a Let Go ma anche qui fin dal riff iniziale preso direttamente da “Highway Of Love” degli Shining Line (traccia in cui è presente lo stesso Martensson, coincidenza?) tutto sembra già scritto; per fortuna la gigantesca e intensa prova vocale di Toby riesce a far decollare una canzone nel complesso buona. Soffici note di un pianoforte ci introducono One Day I’ll Stop Loving You, power ballad pomposa che ci permette di respirare dopo le prime movimentate tracce: un chorus al solito molto sentito da Hitchcock che ha pure la voglia di regalarci un bell’acuto in un crescendo prima dei ritornelli finali. I Should Have Said riporta alti i ritmi mostrandosi come una buona canzone senza però far gridare al miracolo. Più ispirata e solare la successiva If It’s To Be (It’s Up To Me): finalmente meno scopiazzature ed ecco una traccia che colpisce nel segno con un ottimo ritornello, un’ennesima grande prova di Toby al microfono supportato egregiamente da dei cori mai invasivi. Indubbiamente una delle migliori tracce di tutto il disco. Just Say Goodbye invece a causa delle linee vocali molto “Journey” (specie nel chorus) e di un suono molto debitore ancora una volta ai WET, fa fatica a decollare nonostante il buon Toby si impegni parecchio, in una canzone che avrebbe beneficiato di un sound più melodico e semplice. Summer Nights In Cabo nonostante i soliti richiami alle band citate in precedenza riesce nell’intento di intrattenere l’ascoltatore con un ritornello semplicissimo nelle lyrics ma efficace nell’impatto e nelle melodie proposte. Un riff tritasassi ci introduce a Tear Down The Barricades, nonostante quest’ultimo manco a dirlo ricorda tantissimo quello dell’opener “Invincible” (sempre by WET), ma poco importa in quanto per il resto la canzone non da un attimo di respiro con una rocciosa sezione ritmica a fare da struttura portante alle chitarre di Martensson così taglienti e incisive. A chiusura del disco troviamo altre due ottime canzoni come A Different Drum e la titletrack Mercury’s Down: la prima rallenta leggermente il tiro della precedente traccia pur avendo un lavoro enorme alle chitarre da parte di Martensson e uno strabiliante Hitchcock in fase di grazia mentre la titletrack, dal canto suo, racchiude al suo interno tutti i pregi e difetti di questo album partendo dalla splendida voce di Toby fino al sound e alle linee vocali che sanno troppo di già sentito.
IN CONCLUSIONE
Davvero un disco strano questo Mercury’s Down, dal nome in copertina in tanti come il sottoscritto si saranno aspettati un disco intriso di tante melodie ariose ed estive per poi rimanere a bocca aperta una volta tolto il cd dal lettore. Innanzitutto è doveroso fare un plauso a questo cantante americano relativamente giovane che ha letteralmente divorato il microfono regalando forse la sua migliore interpretazione su disco fino a questo momento. Acuti, parti spesso alte e soprendentemente aggressive, senza mai perdere in espressione o “lucentezza” adattandosi direi più che bene al sound duro e aggressivo del disco. Una sorpresa vederlo in questa veste non proprio personale proprio come il buon vecchio Jeff Scott Soto fece qualche anno fa nei WET (voce dura e aggressiva adattata verso la melodia). Il vero punto di forza di questo disco insieme alla produzione e al lavoro fatto con tutti gli altri strumenti da parte di Erik Martensson, autore inoltre di tutti i cori presenti nelle dodici tracce. Purtroppo non è tutto oro quello che luccica e analizzando fino in fondo questo album mi sento in dovere di fare delle considerazioni personali. Che senso ha far uscire il disco solista di “x” se poi il disco viene scritto, prodotto, suonato e orchestrato da “y”? La domanda quindi sorge spontanea e in molti si chiederanno se Mercury’s Down alla luce dei fatti non sia il disco solista di Martensson con il solo Hitchcock alla voce. Inoltre che sia Martensson il nuovo re Mida scelto dalla Frontiers per inserirlo in ogni suo progetto o album da distribuire? Credo che queste scelte possano portare solo un indebolimento della musica proposta, con dischi che suonano quasi uguali a tanti altri sia come produzione (vedere la scelta di Dennis Ward come produttore della maggior parte delle uscite) sia come sound. E infatti è proprio questo il caso di Mercury’s Down che ha come suo difetto maggiore il fatto di essere fin troppo simile al debutto degli WET (di cui Martensson era produttore/songwriter/chitarrista/bassista/tastierista): melodie, stacchi, riff, linee vocali addirittura un intero ritornello “ricopiato” (How To Stop-If I Fall) che portano a pensare che le canzoni di questo disco siano degli “scarti” di quel grandioso lavoro del 2009, senza contare la poca anima e la totale impersonalità che si percepisce durante l’ascolto. Se chi comprerà Mercury’s Down non avrà mai ascoltato il lavoro di Martensson e Soto, allora lo riterrà un album stellare, per tutti gli altri invece, l’effetto sorpresa è pressochè nullo e il senso di deja vù dominerà indisturbato portando ad abbandonare e lasciare facilmente l’album nel dimenticatoio dopo un paio di ascolti .
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